Non ci fu nemmeno il bisogno di precisare l’argomento. Lo sapevano fin troppo bene tutti e due.
«È un casino. Sono appena uscito da una lunga riunione a One Police Plaza con il capo della Polizia e i responsabili di ogni Distretto. Sto recuperando tutti i miei uomini. Stasera vi vorrei vedere per mettervi al corrente della situazione.»
«È così grave?»
«Sì. Quello che sa la stampa non è ancora niente. Anche se devo dire che pure noi per il momento non ne sappiamo molto di più. C’è la possibilità neppure troppo remota che la città possa trovarsi sotto attacco. In ogni caso vi spiegherò tutto di persona. Alle nove al Distretto.»
«D’accordo. Ci vediamo.»
La voce del capitano scese di tono e divenne quella di un amico dopo essere stata quella di un superiore in un momento di emergenza.
«Mi dispiace, Vivien. Lo so che ultimamente hai lavorato sodo e conosco quello che ti porti dietro. So che stasera dovevi accompagnare tua nipote al concerto degli U2. In ogni caso sappi che per motivi di ordine pubblico tutte le manifestazioni che prevedono il raduno di molte persone sono state sospese fino a nuovo ordine.»
«Lo so. Lo ha appena detto la televisione.»
Il capitano fece una pausa. Di partecipazione e non di imbarazzo.
«Come sta Sundance?»
Bellew aveva due figlie poco più grandi di sua nipote. Vivien pensò che probabilmente aveva i loro visi negli occhi mentre le faceva quella domanda.
«Bene.»
Lo disse piano, come ci si accosta a un’illusione e non a una certezza.
L’uomo dall’altra parte capì e non andò oltre.
«A stasera allora.»
«Ciao, Alan. Grazie.»
Vivien chiuse la comunicazione e appoggiò il telefono di fianco al lavandino. Rimase per un istante a guardare i due piatti come se fossero immersi nelle profondità dell’oceano invece che in pochi pollici di acqua.
Quando si girò, Sundance era in piedi davanti a lei dall’altra parte del bancone. Era adulta in quel momento, aveva occhi antichi in un corpo da ragazzina. Tutto quello che aveva intorno le stava provando che ogni cosa che si possiede può essere spazzata via senza preavviso. Vivien sentì più che mai la volontà di insegnarle e di dimostrarle che nello stesso modo molte cose belle possono arrivare.
Come, non lo sapeva ancora. Ma avrebbe imparato. E avrebbe salvato tutte e due.
Sua nipote le sorrise, come se avesse letto sul suo viso quel pensiero.
«Dobbiamo tornare a Joy, vero?»
Vivien assentì con il capo.
«Mi dispiace.»
«Vado a preparare la borsa.»
La ragazza si allontanò e sparì nel corridoio, verso la camera da letto.
Vivien andò alla piccola cassaforte, nascosta senza troppa fantasia dietro un quadro. Dopo aver composto sul pannello elettronico la combinazione, dall’interno prese la pistola e il distintivo.
Sundance era in fondo al corridoio che l’aspettava con la sacca in mano.
Non c’era traccia di delusione sul suo viso. Vivien avrebbe preferito trovarcela, invece di una prematura abitudine a una vita che procede in quel modo e che non sempre si può cambiare.
Quel pomeriggio avevano programmato di andare a correre insieme lungo l’Hudson e poi concedersi una serata di spettacolo e di aggregazione, perse fra la folla del concerto eppure consapevoli di essere insieme, in un momento di buona euforia come solo la musica può dare.
E invece…
Scesero in strada e si avvicinarono alla macchina. La giornata era stupenda ma in quel particolare momento il sole, la brezza leggera e l’azzurro intenso sembravano addirittura beffardi, una vanità compiaciuta della natura piuttosto che un regalo agli esseri umani.
Vivien fece scattare il telecomando e aprì la portiera. Sundance gettò la borsa sul sedile posteriore e poi venne a sedersi al suo fianco. Mentre stava per avviare il motore, la voce esile della ragazza la colse impreparata.
«Sei stata a trovare la mamma, ultimamente?»
Vivien rimase sorpresa e sospesa. Erano parecchi mesi che fra loro quell’argomento non veniva toccato. Si voltò verso sua nipote. Stava guardando fuori dal finestrino, come se avesse pudore di quella domanda o timore della risposta.
«Sì. Ci sono stata. Ieri.»
«Come sta?»
Dove sta, sarebbe la domanda più giusta.
Vivien non espresse quel pensiero istintivo. Cercò di avere una voce il più possibile normale mentre le diceva la verità, come aveva deciso di fare.
«Non bene.»
«Pensi che potrei vederla?»
Vivien sentì una improvvisa mancanza di fiato, come se l’aria all’interno della macchina si fosse rarefatta di colpo.
«Non so se sia una buona idea. Non credo che ti riconoscerebbe.»
Sundance la guardò con il viso rigato di lacrime.
«Io riconosco lei. E questo mi basta.»
Vivien si sentì invadere da una tenerezza devastante. Da che sua nipote si era trovata immischiata in quella brutta storia, era la prima volta che la vedeva piangere. Non sapeva se quando era da sola si fosse mai lasciata attrarre dal conforto illusorio delle lacrime. Con lei e con tutte le persone con cui era venuta a contatto era rimasta sempre presente a se stessa, come se avesse eretto un muro fra sé e la sua umanità per impedire al dolore di entrare.
Di colpo rivide la ragazza di un tempo e rivisse tutti i momenti belli passati insieme. Si sporse sul sedile e la abbracciò, per cercare di cancellare quelli brutti che tutte e due dovevano dimenticare. Sundance si rifugiò in quell’abbraccio e rimasero a lungo immobili, lasciando tutto lo spazio che avevano dentro a quella corrente di emozioni, ognuna stringendo in pugno il biglietto di ritorno da un lungo viaggio.
Vivien sentì la voce rotta dai singhiozzi di sua nipote provenire da un punto imprecisato fra i suoi capelli.
«Oh, Vunny, mi dispiace per quello che ho fatto. Mi dispiace tanto. Non ero io, non ero io, non ero io…»
Continuò a ripetere quelle parole finché Vivien la strinse più forte e le appoggiò una mano sul capo. Sapeva che quello era un momento importante delle loro vite e pregò qualunque entità fosse responsabile delle esistenze degli uomini di farle trovare le parole giuste.
«Shhhhhh. È tutto passato adesso. È tutto passato.»
Disse quella frase due volte, per convincerla e per convincersi.
Vivien la tenne in quel modo finché i singhiozzi di Sundance si calmarono. Quando si staccarono, Vivien si sporse verso il cruscotto, lo aprì e tirò fuori una scatola di Kleenex.
La porse alla ragazza.
«Tieni. Se andiamo avanti così fra poco questa macchina diventerà un acquario.»
Disse quella frase scherzosa per alleggerire la tensione e per suggellare quel nuovo patto fra loro. Sundance accennò a un sorriso. Prese un fazzoletto e si asciugò gli occhi.
Vivien fece la stessa cosa.
La voce decisa della ragazza la sorprese mentre si asciugava gli occhi.
«C’era un uomo.»
Vivien rimase in attesa. In silenzio. La cosa più sbagliata da fare sarebbe stata quella di dimostrare impazienza e di incalzare le confidenze della ragazza. Sundance proseguì senza bisogno di incoraggiamenti. Adesso che il muro era caduto, sembrava che ogni cosa oscura nascosta dall’altra parte avesse urgenza di ritrovare la luce del sole.
«Uno che ho conosciuto e che mi dava delle cose. Uno che organizzava…»
La voce della ragazza si ruppe. Vivien capì che era ancora difficile per lei pronunciare certe parole e usare certe espressioni.
«Ti ricordi come si chiama?»
«Il nome vero non lo conosco. Tutti lo chiamavano Ziggy Stardust.
Penso fosse un soprannome.»
«Sai dove sta? Hai un numero di telefono?»
«No. L’ho visto una volta sola. Poi mi ha chiamato sempre lui.»
Vivien tirò un lungo respiro per calmare i battiti del suo cuore. Sapeva con che cosa avrebbe dovuto combattere nei prossimi giorni. Con la sua rabbia e con il suo istinto. Col desiderio di scovare quella carogna e di entrare nel posto dove viveva e scaricargli un intero caricatore nella testa.
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