Giorgio Faletti - Io sono Dio

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Non c’è morbosità apparente dietro le azioni del serial killer che tiene in scacco la città di New York. Non sceglie le vittime seguendo complicati percorsi mentali. Non le guarda negli occhi a una a una mentre muoiono, anche perché non avrebbe abbastanza occhi per farlo. Una giovane detective che nasconde i propri drammi personali dietro a una solida immagine e un fotoreporter con un passato discutibile da farsi perdonare sono l’unica speranza di poter fermare uno psicopatico che nemmeno rivendica le proprie azioni. Un uomo che sta compiendo una vendetta terribile per un dolore che affonda le radici in una delle più grandi tragedie americane. Un uomo che dice di essere dio.

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L’atteggiamento che ne aveva avuto in cambio non era quello che si era aspettata. Il sacerdote aveva accolto quella notizia con un sorriso tiepido e delle parole che sembravano più di circostanza che di esultanza per un risultato che avevano inseguito a lungo. Non sembrava più la persona che aveva imparato a conoscere e ad ammirare fin dal primo istante. A più riprese aveva deviato il discorso sull’attentato, informandosi sulle modalità, sul numero delle vittime, sulle indagini. Vivien ne aveva ricavato un senso di malessere strano, ambiguo, qualcosa che di certo anche padre McKean si portava dentro e che le aveva trasmesso.

Vivien sbucò infine nella sala dove erano piazzate le scrivanie dei detective. Solo un paio di colleghi erano alle loro postazioni. Il Plaza era vuoto.

Fece un cenno di saluto che comprendeva tutti e nessuno. In quel momento il cameratismo che di solito percorreva quella stanza era scomparso. Tutti erano silenziosi e ognuno sembrava seguire un personale pensiero.

Si sedette alla scrivania, accese il computer e cliccò il tasto del mouse.

Quando il monitor le diede via libera, lanciò il link del Police Database, introdusse il suo User ID e la sua password e, non appena il programma la fece entrare, digitò il nome di Ziggy Stardust. Dopo pochi istanti apparve la foto di un uomo con la sua scheda segnaletica. Fu sorpresa di trovarsi davanti agli occhi un viso anonimo, dall’apparenza innocua, una persona di quelle che si incontrano e subito si scordano. Un perfetto prodotto del niente.

«Eccoti, brutto figlio di puttana.»

Lesse rapidamente tutte le imprese di cui Zbigniew Malone alias Ziggy Stardust si era reso protagonista. Vivien conosceva quella tipologia di persone. Un delinquente di mezza tacca, uno di quelli che per tutta la vita restavano a galleggiare ai bordi della legalità senza avere mai la capacità o il coraggio di inoltrarsi in mare aperto. Uno che nemmeno fra la gente della sua risma riusciva a godere di uno straccio di stima. Era stato arrestato diverse volte per diversi reati. Borseggio, spaccio, sfruttamento della prostituzione e altre facezie. Aveva fatto anche un poco di galera, ma meno di quanto Vivien si sarebbe aspettata, visto il suo curriculum.

Lesse l’indirizzo del soggetto e vide che stava a Brooklyn. Conosceva un detective che lavorava al 67° Distretto, un tipo sveglio e alla mano col quale in passato aveva collaborato per un’indagine. Prese il telefono e si fece passare il Distretto di Brooklyn. Si qualificò con il centralinista e chiese di parlare con il detective Star. Poco dopo la voce del collega le arrivò all’orecchio, leggermente gutturale proprio come la ricordava.

«Star.»

«Ciao, Robert. Sono Vivien Light, del 13°.»

«Ciao delizia del genere umano. A cosa devo l’onore?»

«Lusingata per la definizione, anche se il genere umano la pensa diversamente. Forse tu non ne fai parte.»

Le arrivò il suono della risata di Star.

«Vedo che non sei cambiata. Che ti serve?»

«Ho bisogno di un’informazione.»

«Spara.»

«Che mi dici di un tizio che si fa chiamare Ziggy Stardust?»

«Potrei dirti un sacco di cose ma la prima che mi viene in mente è che è morto.»

«Morto?»

«Esatto. Morto ammazzato. Accoltellato per la precisione. Lo hanno trovato ieri nel suo appartamento, steso a terra in un lago di sangue.

L’autopsia ha stabilito che la morte risale a sabato. Era un pesce piccolo ma qualcuno ha deciso che non meritava di vivere. Noi lo usavamo qualche volta come informatore.»

Vivien aggiunse la qualifica di spia a quelle di Ziggy Stardust di cui già era in possesso. Questo spiegava la mano leggera della Polizia nei suoi confronti. Di solito, in cambio di informazioni di una certa consistenza, si chiudeva un occhio su attività illecite di scarso rilievo.

«Avete preso l’assassino?»

Voleva aggiungere che nel caso lei in persona sarebbe andata volentieri in prigione a dargli una medaglia, ma si trattenne.

«Con i giri che aveva quel pezzente non credo sia facile. E se devo essere onesto, non lascia nessuno a piangerlo. Ce ne stiamo occupando noi ma con quello che sta succedendo, la caccia a chi lo ha tolto dal mondo non ha di certo una priorità assoluta.»

«Ci credo. Tienimi informata. Se dovesse essere necessario ti spiegherò anche il perché.»

«Va bene. Ciao.»

Vivien riagganciò e rimase un attimo a macinare le notizie che aveva appena ricevuto. Poi decise di lanciare la stampa della scheda che aveva sullo schermo. Si alzò e raggiunse la macchina collegata in rete nel momento esatto in cui il foglio usciva sul carrello. Lo prese, tornò alla sua postazione e lo depose sulla scrivania. Aveva intenzione di far vedere la foto a Sundance, per avere la conferma che fosse proprio quello l’uomo di cui le aveva parlato. Non riusciva a provare vergogna per quel piccolo meschino senso di euforia che portava dentro. La brutta fine di Ziggy Stardust era la dimostrazione che la vendetta e la giustizia a volte coincidevano. Quello che aveva promesso a sua nipote si era avverato prima del previsto. L’unico rammarico di Vivien era di non averne alcun merito.

Brett Tyler, un suo collega, sbucò in quel momento dalla porta del bagno di fianco al Plaza. Era un tipo scuro e ben piazzato, dal carattere ostinato più che brillante. E dai modi piuttosto ruvidi con chi non meritava altro trattamento. Vivien l’aveva visto in azione e doveva dire che, quando voleva, sapeva essere estremamente efficace.

Tyler si avvicinò alla sua scrivania.

«Ciao, Vivien. Tutto okay?»

«Più o meno. Tu?»

Il detective allargò le braccia in un gesto rassegnato.

«Sono in fremente attesa di Russell Wade per la testimonianza su quel giro di bische clandestine. Una mattinata di thrilling autentico.»

Vivien rivide la figura stazzonata di Wade uscire dal Distretto accompagnato dal suo avvocato. Ripensò al commento del capitano mentre sfilavano davanti a loro. Alla sua vita disordinata che Bellew aveva definito un vero e proprio tentativo di autodistruzione.

«Sei tu che gli hai fatto a pezzi il labbro?»

«Sì. E se posso farti una confidenza, anche con un certo piacere. Quel tipo non mi piace per niente.»

Vivien non ebbe il tempo di ribattere, perché in quel momento il tipo in questione apparve sulla porta, accompagnato da un agente in divisa. Vivien vide che si era rimesso in sesto rispetto alla prima volta che l’aveva visto, anche se sul suo labbro era ancora evidente il segno della cura Brett Tyler.

«Lupus in fabula», disse piano il collega di fianco a lei.

Wade si diresse verso di loro, mentre l’agente spariva da dove era venuto. Arrivò alla loro altezza e rimase in piedi davanti a Tyler, il quale non fece nulla per mostrarsi cordiale, a parte un saluto così formale da essere vagamente sarcastico.

«Buongiorno, signor Wade.»

«C’è un motivo perché lo sia?»

«In effetti no. Per nessuno dei due.»

L’uomo girò la testa verso Vivien, che era seduta di fianco a loro. Non disse nulla, rimase solo un istante a fissarla. Poi il suo sguardo si spostò e cadde sulla foto che era appoggiata sulla scrivania. Subito dopo i suoi occhi tornarono a cercare quelli di Tyler.

«Allora, vediamo di risolvere alla svelta questa faccenda?»

Il tono della domanda era stato vagamente provocatorio. Tyler accettò la sfida.

«Non ha portato il suo avvocato?»

«Perché, ha intenzione di darmi un altro pugno?»

Vivien avrebbe giurato di vedere una luce divertita nello sguardo di Russell Wade. Forse l’aveva vista anche Tyler, perché si rabbuiò di colpo.

Si fece di lato e indicò un punto alla sua destra.

«Da questa parte, prego.»

Mentre si avviavano verso la scrivania di Tyler, sulla bocca di Vivien rimase per qualche istante un accenno di sorriso per la scaramuccia verbale fra i due. Poi dedicò la sua attenzione al faldone relativo al cadavere che avevano trovato murato sulla 23sima che era sulla sua scrivania. Lo aprì e all’interno ci trovò il referto dell’autopsia e una copia delle foto che avevano trovato nel portadocumenti in terra, di fianco al corpo. Nonostante il desiderio del capitano di occuparsi dei reati commessi nel suo territorio di competenza, era ragionevolmente certa che la pratica sarebbe stata trasferita alla Cold Case, per cui scorse velocemente e senza troppo interesse il documento redatto dal medico legale. Confermava con termini tecnici le cause della morte che il coroner le aveva anticipato con parole più accessibili sul luogo del ritrovamento. La data della morte era fatta risalire a una quindicina di anni prima, con una certa possibilità di imprecisione dovuta alle condizioni del luogo in cui il corpo si era conservato. L’analisi sui resti dei vestiti non era ancora arrivata, quella sull’arco dentale era in corso. Il cadavere non presentava segni particolari, a parte una linea di frattura consolidata all’omero e alla tibia destri e un tatuaggio su una spalla, ancora visibile nonostante il tempo trascorso.

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