Giorgio Faletti - Io sono Dio

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Non c’è morbosità apparente dietro le azioni del serial killer che tiene in scacco la città di New York. Non sceglie le vittime seguendo complicati percorsi mentali. Non le guarda negli occhi a una a una mentre muoiono, anche perché non avrebbe abbastanza occhi per farlo. Una giovane detective che nasconde i propri drammi personali dietro a una solida immagine e un fotoreporter con un passato discutibile da farsi perdonare sono l’unica speranza di poter fermare uno psicopatico che nemmeno rivendica le proprie azioni. Un uomo che sta compiendo una vendetta terribile per un dolore che affonda le radici in una delle più grandi tragedie americane. Un uomo che dice di essere dio.

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Si erano lasciate alle spalle Roosevelt Island e stavano costeggiando l’East River verso Downtown quando accadde. Circa mezzo miglio davanti a loro, sulla destra, di colpo una luce arrivò a sovrapporsi e a cancellare tutte le altre e per un attimo sembrò il concentrato di tutte le luci del mondo.

Poi la strada parve tremare sotto le ruote della macchina e attraverso i finestrini aperti arrivò il rombo avido di un’esplosione.

CAPITOLO 12

Russell Wade era appena rientrato a casa quando all’improvviso un lucido bagliore inatteso arrivò dal Lower East Side. Le grandi finestre dal soffitto al pavimento del soggiorno divennero la cornice di quel lampo, così vivido da sembrare quasi un gioco. Ma il lampo non si spense e continuò ad ardere nascondendo tutte le luci in lontananza. Attraverso il filtro dei vetri antisfondamento arrivò sordo un rombo che non era tuono ma la sua umana distruttiva imitazione. E poi una sinfonia eterogenea di dispositivi d’allarme, messi in funzione dallo spostamento d’aria, isterici senza ferocia, come inutili piccoli cani abbaianti dietro a un’inferriata.

La vibrazione gli fece fare istintivamente un passo indietro. Sapeva quello che era successo. Lo aveva capito subito. L’aveva già visto e provato sulla sua pelle, altrove. Sapeva che quel bagliore significava incredulità e sorpresa, dolore e polvere, urla, feriti, bestemmie e preghiere.

Significava morte.

E, in un bagliore altrettanto improvviso, un flash di immagini e ricordi.

«Robert, ti prego…»

E suo fratello già preso dall’ansia che stava controllando le macchine e gli obiettivi e che i rullini fossero al loro posto nelle tasche del giubbetto.

Senza guardarlo in faccia. Forse si vergognava per questo. Forse nella sua mente stava già vedendo le foto che avrebbe scattato.

«Non succederà nulla, Russell. Tu devi solo stare qui tranquillo.»

«E tu dove vai?»

Robert aveva sentito l’odore della sua paura. Era abituato a quell’odore.

Tutta la città ne era impregnata. Si respirava nell’aria. Come un brutto presentimento che si avvera, come un incubo che non sparisce al risveglio, come le urla di moribondi che non finiscono dopo la loro morte.

Lo aveva guardato con occhi che forse lo vedevano per la prima volta da che erano arrivati a Pristina. Un ragazzo spaventato che non doveva essere lì.

«Devo andare là fuori. Devo esserci.»

Russell aveva capito che non poteva essere che così. E nello stesso momento aveva realizzato che non avrebbe mai potuto, neanche in cento vite, essere come suo fratello. Era tornato in cantina, sotto la botola coperta dal vecchio tappeto farinoso e Robert era uscito dalla porta. Nel sole nella polvere nella guerra.

Era stata l’ultima volta che lo aveva visto vivo.

Come reazione a quel pensiero, corse in camera da letto, dove sulla scrivania era appoggiata una delle sue macchine fotografiche. La prese e tornò alla finestra. Spense tutte le luci per evitare il riflesso e scattò diverse inquadrature di quel bagliore lontano, ipnotico, circondato da un’aura di luce malsana. Sapeva che quelle foto non sarebbero state di nessuna utilità ma lo fece per punire se stesso. Per ricordare chi era, cosa aveva fatto, cosa non aveva fatto.

Erano passati anni da che suo fratello era uscito da quella porta trafitta dal sole, amplificando per qualche istante il ticchettare lontano di raffiche di mitra.

Nulla era cambiato.

Da quel giorno in poi, non c’era stato mattino che non si fosse svegliato con quell’immagine davanti agli occhi e quel suono nelle orecchie. Da allora in poi, ogni suo inutile scatto era stato solo un nuovo fotogramma di quella sua antica paura. Mentre continuava a inquadrare e a premere il pulsante, iniziò a tremare. Un tremito di rabbia, animale, senza gemiti, di puro istinto, come se fosse la sua anima in realtà a rabbrividire dentro di lui e avesse il potere di scuotere e percuotere il suo corpo.

Lo schiocco dell’obiettivo divenne nevrotico

cli-clok

cli-clok

cli-clok

cli-clok

cli-clok

come nella isterica furia omicida di chi ha sparato addosso alla sua vittima

Robert

tutte le cartucce a disposizione e che tuttavia non riesce a smettere di tirare il grilletto e continua, per inerzia dei nervi, ottenendo in cambio solo lo scatto vuoto e secco del percussore.

Basta, cazzo!

Puntuale come una replica dovuta, arrivò dall’esterno il suono acuto e urgente delle sirene.

Lampi senza collera.

Lampi di luce accesa buona sana veloce. Polizia, pompieri, ambulanze.

La città era colpita, la città era ferita, la città chiedeva aiuto. E tutti accorrevano, da tutte le parti, con la rapidità che la misericordia e la civiltà mettevano loro a disposizione.

Russell smise di scattare e al chiarore che proveniva dall’esterno trovò il telecomando del televisore. Lo accese e lo trovò automaticamente sintonizzato su NY1. In quel momento erano in programma le previsioni del tempo. La trasmissione fu interrotta due secondi dopo che lo schermo si era illuminato. L’uomo davanti alle cartine con il sole e la pioggia fu sostituito senza preavviso da un primo piano di Faber Andrews, uno degli anchorman del canale. Una voce profonda, un volto serio e compreso nella situazione, non per mestiere, ma per umanità.

«Abbiamo appena avuto notizia che una forte esplosione ha sconvolto un palazzo nel Lower East Side di New York City. Le prime voci parlano di un numero imprecisato di vittime, ma che pare piuttosto elevato. Non abbiamo modo di riportare altro. Attualmente non conosciamo le cause e i motivi di questo fatto funesto che speriamo in seguito di poter ridimensionare nella sua gravità e non dover definire criminale. Il ricordo di avvenimenti altrettanto luttuosi del recente passato è ancora nel ricordo di tutti. In questo momento tutta la città, tutta l’America, forse tutto il mondo stanno aspettando con il fiato sospeso di sapere. I nostri corrispondenti si sono già mossi per raggiungere il luogo dell’incidente e fra poco saremo in grado di darvi notizie più aggiornate. Per ora è tutto.»

Russell si spostò sulla CNN. Anche qui stavano dando un annuncio che, con visi e parole differenti, era nel senso uguale a quello di NY1. Tolse l’audio, lasciando alle immagini il compito di riferire. Rimase seduto sul divano davanti al televisore, con la sola lanugine luminosa dello schermo a fargli compagnia. Le luci della città oltre le vetrate sembravano provenire dal freddo e dalla lontananza dello spazio siderale. E in basso, a sinistra, c’era quella luce da sole assassino a divorare tutte le altre stelle. Quando i suoi gli avevano regalato quell’appartamento, era stato contento di essere al ventinovesimo piano e che da lì ci fosse una vista stupenda su tutta Downtown, con il Brooklyn e il Manhattan Bridge sulla sinistra e il Flatiron a destra e il New York Life Insurance Building proprio di fronte a lui.

Ora quella vista era solo un altro motivo di angoscia.

Tutto era successo così in fretta. Tutto era andato così veloce da che era stato rilasciato dopo la notte in prigione. Eppure, se ci ripensava, le immagini nella sua testa si muovevano come al rallentatore. Era chiaro ogni istante, ogni sfumatura, ogni colore, ogni sensazione. Come una condanna a rivivere quegli istanti all’infinito.

Come fosse di nuovo e per sempre Pristina.

Il viaggio dal Distretto di Polizia a casa era iniziato in silenzio. E secondo le sue intenzioni, così avrebbe dovuto essere per tutto il tempo.

L’avvocato Corneill Thornton, un vecchio amico di famiglia, lo aveva capito e fino a un certo punto si era adeguato.

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