Poi la tregua era finita. Ed era arrivato l’attacco.
«Tua madre è molto in pensiero per te.»
Senza guardarlo, Russell aveva risposto con un’alzata di spalle.
«Mia madre è sempre in pensiero per qualcosa.»
Gli erano venuti in mente la figura inappuntabile e il viso levigato di Margareth Taylor Wade, appartenente all’alta borghesia di Boston, che nella scala di valori di quella città poteva essere considerata una vera e propria aristocrazia. Boston era la città più europea di tutta la East Coast, forse d’America. Dunque la più esclusiva. E lei ne era una delle rappresentanti di maggiore spicco. Margareth si muoveva con grazia ed eleganza nel mondo con il suo viso dolce da donna che non meritava quello che la vita le aveva riservato: un figlio ucciso durante un reportage di guerra nell’ex Jugoslavia e l’altro protagonista di una vita che, se possibile, era un dolore ancora peggiore.
Forse non si era mai ripresa, né da una cosa né dall’altra. Ma continuava la sua vita di distinzione e memoria perché erano imprescindibili da lei. Con suo padre, Russell non parlava dal giorno successivo a quella maledetta faccenda del Pulitzer.
Dal loro atteggiamento nei suoi confronti, fin dai primi tempi, Russell aveva sempre ricavato un sospetto. Forse ognuno dei due pensava che era morto il fratello sbagliato.
L’avvocato aveva continuato nel suo approccio, che Russell sapeva benissimo dove sarebbe arrivato.
«Le ho detto che sei ferito. Lei pensa sarebbe opportuno che tu ti facessi vedere da un medico.»
A Russell venne da sorridere.
Opportuno…
«Mia madre è ineccepibile. Oltre che la parola giusta al momento giusto, sa sempre scegliere anche la più elegante.»
Thornton si era appoggiato allo schienale di cuoio. Le sue spalle si erano rilassate come succede di fronte alle situazioni senza speranza.
«Russell, io ti conosco da quando eri un ragazzino. Non pensi che…»
«Avvocato, lei non è qui per condannare o per assolvere. Per quello ci sono i giudici. Né per farmi prediche. Per quello ci sono i preti. Lei deve solo tirarmi fuori dai pasticci, quando le viene richiesto.»
Russell si era girato a guardarlo con un mezzo sorriso.
«Mi pare che sia pagato per farlo. Profumatamente, con una parcella oraria che è il corrispettivo del salario settimanale di un operaio.»
«Tirarti fuori dai pasticci, dici? È quello che continuo a fare.
Ultimamente mi pare che accada più sovente di quanto sia legittimo aspettarsi.»
L’avvocato aveva fatto una pausa. Come per decidere se dire o non dire.
Infine aveva scelto la prima soluzione.
«Russell, ognuno ha il diritto, sancito dalla Costituzione e dal suo cervello, di distruggersi come meglio crede. E tu hai una fantasia estremamente creativa, in quella direzione.»
Lo aveva guardato negli occhi e da avvocato difensore si era trasformato in compiaciuto carnefice.
«Da ora in poi, sarò lieto di rinunciare alla parcella. Dirò a tua madre, quando servirà, di rivolgersi altrove. E me ne starò seduto, con un sigaro e un bicchiere di buon whisky in mano, a guardare lo spettacolo della tua demolizione.»
Null’altro era stato detto perché null’altro c’era da dire. La limousine lo aveva lasciato davanti a casa, sulla 29sima, fra la Park e la Madison. Era sceso senza salutare e senza aspettare un saluto. Il tutto alla luce di un velato disprezzo umano e di una efficace indifferenza professionale. Era salito nel suo appartamento, dopo aver afferrato al volo le chiavi che gli tendeva il doorman. Aveva appena aperto la porta che il telefono si era messo a squillare. Russell era certo di sapere chi era. Aveva sollevato la cornetta e aveva detto
«Pronto?»
aspettandosi di sentire una voce. E quella voce era arrivata.
«Ciao, fotografo. Ti ha detto male ieri, eh? Al gioco e con gli sbirri.»
Russell aveva visualizzato un’immagine. Un uomo di colore, grosso, con perenni occhiali scuri e con un doppio mento che il pizzetto cercava invano di mascherare, la mano piena di anelli che reggeva un cellulare, sprofondato nel sedile posteriore della sua Mercedes.
«LaMarr, non sono nello stato d’animo giusto per sentire le tue stronzate. Che vuoi?»
«Lo sai che voglio, giovanotto. Soldi.»
«In questo momento non li ho.»
«Bene. Temo che farai meglio ad averli quanto prima.»
«Che hai intenzione di fare? Spararmi?»
Dall’altra parte era arrivata una risata piena di forza e di scherno. E una minaccia ancora più umiliante.
«La tentazione è forte. Ma non sono così scemo da metterti in una cassa con in tasca i cinquantamila dollari che mi devi. Semplicemente ti manderò un paio di miei ragazzi che ti spiegheranno alcune cose della vita. Poi ti lascerò il tempo di guarire. E poi te li manderò di nuovo, finché li accoglierai con in mano i miei soldi, che nel frattempo saranno diventati sessantamila, se non di più.»
«Sei un pezzo di merda, LaMarr.»
«Sì. E non vedo l’ora di dimostrarti fino a che punto. Ciao, fotografo delle mie chiappe. Prova con La Ruota della Fortuna, magari ti andrà meglio.»
Russell aveva riattaccato, le mascelle contratte, annegando nei fili l’eco della risata di LaMarr Monroe, uno dei più grandi figli di puttana che popolavano le notti di New York. Purtroppo, Russell sapeva che non parlava a vanvera. Era un tipo che manteneva quello che prometteva, specie quando correva il rischio di perdere la faccia.
Era andato in camera da letto e si era spogliato, gettando i vestiti a terra. La giacca strappata era finita nella spazzatura. Si era spostato in bagno, si era imposto di farsi una doccia e la barba, con la tentazione di mettere la schiuma sullo specchio invece che sul viso. Per non vedere la sua faccia. Per non vedere la sua espressione. Dopo, si era trovato da solo in casa. E per lui quella definizione significava essere a casa senza nulla da bere, senza un tiro di cocaina e senza un centesimo in tasca.
L’appartamento in cui viveva era ufficiosamente suo ma in realtà era intestato a una società della famiglia. Anche i mobili erano stati scelti con gusto da un arredatore pagato da sua madre fra la vasta scelta a prezzo popolare dell’Ikea e di altri magazzini simili. Il motivo era semplice. Tutti sapevano che Russell si sarebbe rivenduto qualunque cosa di valore con cui fosse venuto a contatto e che i soldi li avrebbe investiti a un tavolo da gioco.
Cosa che era successa con regolarità in passato.
Auto, orologi, quadri, tappeti.
Tutto.
Con furia distruttiva e precisione maniacale.
Russell si era seduto su un divano. Avrebbe potuto telefonare a Miriam o a un’altra delle modelle che frequentava in quel periodo, ma averle in giro per casa significava a un certo punto essere in grado di mettere sul piano del tavolo un poco di polverina bianca. E avere il denaro per portarle fuori. In quel momento, in cui non aveva niente dentro, sentiva il desiderio di avere almeno delle cose intorno. E ognuna di quelle cose costava denaro. Un pensiero aveva attraversato la sua mente.
O meglio, un nome.
Ziggy.
Aveva conosciuto quell’ometto stinto diversi anni prima. Era un informatore di suo fratello, uno che a volte gli faceva soffiate su movimenti interessanti di quella vita della città che lui definiva «oltre la linea di frontiera», quelli che era giusto sapere perché ogni fatto poteva diventare notizia. Dopo la morte di Robert erano rimasti in contatto, per motivi ben diversi. Uno dei quali era che, in memoria di suo fratello, gli procurava quello che gli serviva e gli faceva credito. E qualche piccolo prestito quando, come adesso, era con l’acqua alla gola. Russell ignorava il motivo di quell’attaccamento e di quella fiducia. Ma era un dato acquisito e quando era necessario ne approfittava.
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