Giorgio Faletti - Io sono Dio

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Non c’è morbosità apparente dietro le azioni del serial killer che tiene in scacco la città di New York. Non sceglie le vittime seguendo complicati percorsi mentali. Non le guarda negli occhi a una a una mentre muoiono, anche perché non avrebbe abbastanza occhi per farlo. Una giovane detective che nasconde i propri drammi personali dietro a una solida immagine e un fotoreporter con un passato discutibile da farsi perdonare sono l’unica speranza di poter fermare uno psicopatico che nemmeno rivendica le proprie azioni. Un uomo che sta compiendo una vendetta terribile per un dolore che affonda le radici in una delle più grandi tragedie americane. Un uomo che dice di essere dio.

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Rimase lì, chiedendosi se il vuoto nel quale si sentiva precipitare fosse la morte. Se suo fratello provava la stessa cosa, ogni volta che si avvicinava a una notizia o stava per scattare una delle sue foto. Nascose il viso fra le mani e nella penombra delle palpebre chiuse si rivolse all’unica persona che avesse davvero contato qualcosa per lui. Come ultimo appiglio, cercò di immaginare quello che avrebbe fatto Robert Wade se si fosse trovato nella sua situazione.

CAPITOLO 13

Padre Michael McKean era seduto su una poltrona davanti a un vecchio televisore, nella sua camera a Joy, la sede della comunità che aveva fondato a Pelham Bay. Era una stanza all’ultimo piano, un abbaino con parte del soffitto a spiovere, i muri bianchi e un pavimento di larghe tavole di abete. Nell’aria c’era ancora un vago sentore dell’impregnante con cui era stato trattato, una settimana prima. I mobili da poco prezzo che componevano l’arredamento spartano erano stati recuperati dove capitava.

Tutti i volumi appoggiati sulla libreria, sulla scrivania e sul tavolino da notte erano arrivati in quella casa seguendo lo stesso percorso. Molti erano regali dei parrocchiani, alcuni fatti espressamente a lui. Tuttavia, padre McKean per sé aveva sempre scelto le cose più usurate e compromesse.

Un poco per il suo carattere ma soprattutto perché, se c’era la possibilità di avere una miglioria nella vita di tutti i giorni, preferiva che fossero i ragazzi a beneficiarne. Le pareti erano spoglie, a parte il crocifisso sopra il letto e la macchia di un unico poster. Riproduceva il dipinto in cui Van Gogh aveva ritratto con i suoi colori inventati e la sua prospettiva da visionario la povertà della sua stanza nella Casa Gialla ad Arles. Pur essendo due ambienti completamente differenti, entrando si aveva l’impressione che quelle due stanze si comprendessero, che in qualche modo comunicassero e che quel quadro sul muro bianco fosse in realtà un’apertura attraverso la quale era possibile avere accesso a un posto lontano e a un tempo diverso.

Oltre i vetri della finestra senza tende, si intravedeva il mare riflettere l’azzurro ventoso del cielo di fine aprile. Quando era bambino, in giornate serene come quella, sua madre gli diceva che il sole dava all’aria un colore come gli occhi degli angeli e che il vento non permetteva loro di piangere.

Una piega amara diede una nuova forma alla sua bocca e una diversa espressione al suo viso. Quelle parole piene di fantasia e colore erano state trasmesse a una mente ancora così pulita da saperle raccogliere e trattenere nella memoria per sempre. Ma il notiziario della CNN in quel momento aveva altre parole e altre immagini per il suo presente, chiamate a comporre per la memoria futura scene che da sempre solo la guerra aveva il triste privilegio di rappresentare.

E la guerra, come tutte le epidemie, prima o poi arrivava dappertutto.

In primo piano c’era il viso di Mark Lassiter, un inviato dal viso consapevole eppure come incredulo per quello che stava vedendo e dicendo, che portava sotto gli occhi e nei capelli e sul colletto della camicia il segno di una notte passata in bianco. Dietro di lui le macerie di un palazzo sventrato dalle quali uscivano ancora delle beffarde volute di fumo grigiastro, figlie morenti delle fiamme che avevano illuminato a lungo l’oscurità e lo sgomento degli uomini. I vigili del fuoco avevano lottato tutta la notte per sedarle e ancora adesso, su un lato, i lunghi getti degli idranti indicavano che l’opera non era del tutto finita.

«Quello che vedete alle mie spalle è il palazzo che ieri sera è stato parzialmente distrutto da una fortissima esplosione. Gli esperti, dopo una prima sommaria indagine, sono ancora all’opera per stabilirne le cause.

Finora nessuna rivendicazione è arrivata a stabilire se si tratti di un attentato di stampo terroristico o di un semplice per quanto tragico incidente. La sola cosa certa è che il bilancio delle vittime e dei dispersi è piuttosto elevato. I soccorritori stanno lavorando senza sosta e senza risparmio di mezzi per estrarre da sotto le macerie i corpi di quanti hanno perso la vita con la speranza mai spenta di trovare eventuali superstiti.

Ecco le impressionanti immagini dalla telecamera montata sul nostro elicottero che mostrano senza bisogno di eccessivi commenti l’entità di questa tragedia che sta sconvolgendo la città e l’intero Paese e che riporta alla mente altre immagini e altre vittime che gli uomini e la storia non smetteranno mai di ricordare.»

L’inquadratura era cambiata e la voce di Lassiter si trovò a fare da sottofondo a delle riprese aeree. Vista dall’alto, la scena era ancora più straziante. L’edificio, una costruzione in mattoni rossi di ventidue piani, era stato stroncato a metà in senso longitudinale dall’esplosione. La parte destra aveva collassato ma, invece di far implodere l’edificio, era scivolata di lato lasciando uno spuntone eretto come un dito a indicare il cielo. La linea di frattura era netta al punto tale che su quel fianco si vedevano le stanze senza la parete esterna e residui di mobili e di quegli oggetti che significavano per gli essere umani la vita di tutti i giorni.

All’ultimo piano, un lenzuolo bianco era rimasto infilato su un traliccio e adesso si muoveva desolato al vento e allo spostamento d’aria delle pale dell’elicottero, come una bandiera di resa e di lutto. Fortunatamente la parte che si era staccata era scivolata verso una zona alberata, un piccolo parco con giochi per i bambini, un campo da basket e due da tennis, che aveva accolto le macerie evitando di colpire altri edifici e di far aumentare il numero delle vittime. L’esplosione, sfogandosi verso il lato dell’East River, aveva ignorato gli edifici dalla parte opposta, anche se tutti i vetri, per un discreto raggio, erano stati polverizzati dallo spostamento d’aria.

Intorno al palazzo ferito e fra le sue macerie, era un delirio colorato di mezzi di soccorso e di uomini che si affannavano pieni di vigore e di speranza in quella lotta contro il tempo.

Il commentatore tornò in primo piano sostituendo il proprio viso a quelle immagini di desolazione e morte.

«Il sindaco Wilson Gollemberg ha decretato lo stato di emergenza e si è precipitato sulla scena del disastro. Ha partecipato attivamente per tutta la notte alle operazioni di soccorso. Abbiamo una sua prima dichiarazione, registrata ieri sera subito dopo il suo arrivo sul posto.»

Ancora un cambio di inquadratura, con quel tanto di perdita di qualità che una registrazione fatta in quelle condizione comportava. Il sindaco, un uomo alto e dal viso aperto che dava l’impressione di vibrare di ansia e nello stesso tempo trasmettere fiducia e fermezza, era illuminato dalle luci bianche e immobili delle telecamere, che combattevano il controluce di fiamme senza legge alle sue spalle. In quel momento di confusione e di emergenza aveva rilasciato poche parole a commento di quello che era appena successo.

«Per ora non è possibile fare bilanci e trarre conclusioni. Una sola cosa posso promettere, da sindaco a tutti miei cittadini e da americano a tutti gli americani. Se esistono uno o più responsabili di questo atto nefando, voglio che sappiano fin da ora che per loro non ci sarà scampo. La loro viltà e la loro ferocia avranno la punizione che si meritano.»

Ancora il telecronista in diretta da un luogo che per molta gente non sarebbe stato mai più lo stesso.

«Per il momento è tutto dal Lower East Side di New York. Una conferenza stampa è prevista a breve. Vi chiederò la linea se ci saranno ulteriori sviluppi. Qui Mark Lassiter, a voi studio.»

L’immagine e la risposta degli anchorman seduti alla scrivania nello studio arrivarono in contemporanea allo squillo del cellulare, posato su un tavolino accanto alla poltrona. Il sacerdote tolse l’audio al televisore e rispose alla chiamata. Dall’apparecchio uscì la voce leggermente sfocata dall’emozione di Paul Smith, il parroco di Saint Benedict.

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