Purtroppo Ziggy non usava il cellulare e la trafila per arrivare a lui era troppo lunga. Dopo alcuni passeggi nervosi fra il soggiorno e la camera da letto, aveva preso una decisione. Era sceso in garage e aveva tirato fuori la macchina, che guidava di rado e malvolentieri. Forse perché era una Nissan da poche migliaia di dollari e sul libretto di circolazione non c’era il suo nome. Controllò che nel serbatoio ci fosse benzina a sufficienza per l’andata e il ritorno. Sapeva dove abitava Ziggy e si era avviato seguendo gli strattoni del traffico verso Brooklyn. Il viaggio era stato una specie di automatismo. Aveva visto scorrere la città senza vederla, per ripagare il fatto che la città non vedeva lui.
Il labbro gli faceva male e gli occhi gli bruciavano, nonostante gli occhiali da sole.
Aveva passato il ponte ignorando gli skyline di Manhattan e di Brooklyn Heights e si era addentrato nei quartieri dove gente qualunque viveva una vita qualunque. Posti senza illusioni e senza risultati, disegnati a tratto ruvido con i colori sbiaditi della realtà, posti che frequentava spesso perché erano quelli in cui nascevano le bische clandestine e dove chiunque poteva trovare quello che gli serviva.
Bastava avere pochi scrupoli e parecchio denaro.
Era arrivato a casa di Ziggy quasi senza accorgersene. Aveva parcheggiato poco oltre l’edificio e dopo alcuni passi si era trovato a spingere la porta d’ingresso e a scendere i gradini che portavano al seminterrato. Qui non c’erano portieri e il citofono era una formalità ormai superata da tempo. In fondo alla scala aveva piegato a sinistra. I muri erano fatti di mattoni industriali verniciati frettolosamente di un colore che un tempo doveva essere stato beige. Le pareti erano tutte macchiate e c’era nell’aria odore di cavolo lesso e di umidità. Appena girato l’angolo, si era trovato di fronte una sequenza di porte marrone sbiadito. Una persona stava uscendo da quella verso cui era diretto, in fondo al corridoio, sulla destra. Un uomo con una giacca militare verde e un cappuccio blu alzato a coprire la testa, che si era mosso a passo deciso verso l’altra parte del corridoio, per sparire dietro l’angolo opposto, sulla scala che portava all’ingresso sul cortile.
Russell non ci aveva fatto molto caso. Aveva pensato fosse solo uno dei mille contatti che doveva avere ogni giorno quel trafficone di Ziggy.
Quando era arrivato all’altezza dell’uscio, aveva trovato il battente accostato. Aveva spinto la maniglia e il suo sguardo aveva inquadrato la stanza e poi tutto era successo con la velocità di un lampo e la scansione a fotogrammi di una moviola.
Ziggy in ginocchio a terra con la camicia tutta macchiata di sangue che stava cercando di tirarsi in piedi aggrappandosi a una sedia
lui che si avvicinava e la mano scarna dell’uomo arpionata al suo braccio Ziggy appoggiato al bordo del tavolo con la mano tesa verso la stampante
lui che non capiva
Ziggy con il dito che premeva un tasto lasciando una traccia rossa lui che ascoltava senza sentire il fruscio del foglio stampato che usciva sul carrello
Ziggy con in mano una foto
lui terrorizzato
e infine Ziggy che con una contrazione aveva gettato fuori l’ultimo respiro e l’ultimo fiotto di sangue dalla bocca aperta. Era caduto a terra con un rumore sordo e Russell si era trovato in piedi, in mezzo alla stanza, con in mano una foto in bianco e nero e un foglio stampato, tutti e due macchiati di rosso.
E negli occhi l’immagine di suo fratello steso insanguinato nella polvere.
Muovendosi come un manichino, senza alcuna coscienza dei suoi gesti, aveva infilato il foglio e la foto in una tasca. Poi, seguendo la logica e l’istinto degli animali, era fuggito lasciando la ragione dietro di sé, in quel posto che sapeva di cavolo lesso e di umidità e di presente e di passato.
Aveva raggiunto la macchina senza incontrare nessuno. Era partito imponendosi di non andare veloce per non attirare l’attenzione. Aveva guidato come in trance fino a che il respiro era tornato normale e il battito del cuore una anomalia risolta. A quel punto aveva fermato la macchina in un vicolo e si era messo a riflettere. Si era detto che fuggendo aveva fatto senza dubbio una scelta istintiva ma nello stesso momento era certo che fosse anche la scelta sbagliata. Avrebbe dovuto chiamare la Polizia.
Ma questo significava dover spiegare il motivo della sua presenza lì e della sua frequentazione con Ziggy. E quel trafficone in chissà quali pasticci si era infilato. Inoltre era possibile che il tipo con la giacca verde potesse essere la persona che aveva accoltellato quel poveraccio. L’idea che potesse, per un motivo qualunque, decidere di tornare indietro non era una bella prospettiva. Non voleva essere un secondo cadavere adagiato acconto a quello di Ziggy.
No. Meglio fare finta di nulla. Nessuno l’aveva visto, non aveva lasciato tracce dietro di sé e da quelle parti era pieno di gente che si faceva i fatti suoi. Inoltre, ogni abitante del quartiere aveva per natura una certa riluttanza ad aprirsi con i poliziotti.
Mentre rifletteva e decideva che linea seguire, si era accorto che la manica destra della giacca era macchiata di sangue. Aveva svuotato le tasche gettando ogni cosa sul sedile del passeggero. Aveva controllato che non ci fosse nessuno nei paraggi quindi era sceso a buttare l’indumento in un cassonetto dei rifiuti. Con un cenno di autoironia che lo aveva sorpreso, date le circostanze, si era detto che al ritmo di due giacche gettate al giorno, presto avrebbe avuto seri problemi con il guardaroba.
Era salito in macchina ed era tornato a casa. Dal garage, con l’ascensore era salito direttamente al suo piano. Questo avrebbe evitato al portiere la fatica di ricordare che era uscito con la giacca ed era rientrato in maniche di camicia.
Aveva appena appoggiato la sua roba sul tavolo quando era arrivata l’esplosione.
Si alzò dal divano e andò a riaccendere la luce, gli occhi rivolti al bagliore a est e il pensiero che non riusciva a staccarsi da quello che era successo nel pomeriggio. Gli venne da chiedersi una cosa, ora che ragionava a mente fredda. Perché Ziggy aveva impiegato le ultime forze e gli ultimi momenti di vita per stampare quel foglio rimasto in sospeso e per metterlo fra le sue mani insieme alla foto? Cosa c’era sopra di tanto importante da giustificare quel comportamento?
Si avvicinò al tavolo, prese la foto e la fissò per qualche istante, senza sapere chi fosse e senza capire che cosa potesse significare quel viso di ragazzo bruno che reggeva in mano un gatto nero. Il foglio invece era la fotocopia di una lettera scritta a mano, con un tratto senza dubbio maschile. Iniziò a leggere, cercando di decifrare la calligrafia ruvida e imprecisa.
E mentre scorreva le parole e ne capiva il senso, si ripeteva che non poteva essere vero. Dovette rileggerla tre volte per convincersi. Dopo, senza fiato, appoggiò di nuovo la lettera e la foto sul tavolo, con la sola macchia del sangue di Ziggy a confermare che invece era tutto reale, che non si trattava di un sogno.
Ritornò a rivolgere lo sguardo verso l’incendio che continuava ad ardere laggiù in fondo.
Aveva la testa confusa. Mille pensieri gli attraversavano la mente senza che riuscisse a fissarne nemmeno uno. L’annunciatore di NY1, prima, non aveva detto l’indirizzo preciso del posto dove quel palazzo si era disintegrato. Di certo lo avrebbero riferito in un notiziario successivo.
Lo doveva assolutamente sapere.
Tornò sul divano e ridiede voce al televisore per avere ulteriori informazioni dai telegiornali. Senza sapere bene se aspettarsi una smentita o una conferma.
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