La aprì per controllare l’interno e ci trovò dei fogli di carta comune scritti a mano con una calligrafia rozza ma abbastanza leggibile. La scrittura di un uomo che forse non aveva molta dimestichezza con le parole, sia parlate che scritte.
Ziggy iniziò a leggere. I primi fogli erano piuttosto noiosi, pieni di un racconto di vita esposto in modo rude e a volte disarticolato. Lui era uno che leggeva libri e sapeva riconoscere la mano di un uomo che aveva studiato e che sapeva scrivere. Quella non lo era.
Però si accorse che la lettura non era priva di un certo fascino, nonostante la prosa non certo da scrittore. Per quello che raccontava, piuttosto che come. Continuò a leggere con sempre maggiore attenzione e a poco a poco l’attenzione divenne interesse e infine una specie di febbre.
Al termine della lettera, non poté fare a meno di scattare in piedi. Sentì un leggero brivido percorrergli la schiena e i peli delle sue braccia rizzarsi come per effetto di un campo elettrico.
Ziggy Stardust non riusciva a credere ai suoi occhi. Si risedette lento, con le gambe aperte e lo sguardo verso un punto imprecisato. Più del tempo che dello spazio.
La grande occasione era arrivata.
Quello che aveva in mano poteva valere milioni di dollari, trovando la gente giusta. Gli girava la testa all’idea. I possibili vantaggi per lui gli fecero dimenticare le sicure conseguenze per altri.
Appoggiò i fogli sul letto con attenzione esagerata, quasi fossero oggetti fragili. Poi iniziò a pensare come trarre profitto da quella fortuna inaspettata. A come muoversi e come fare per distillare il materiale in modo da suscitare il massimo interesse e avere il massimo tornaconto.
E soprattutto a chi contattare.
Diversi pensieri fecero diversi passaggi alla velocità della luce nel suo cervello.
Accese la stampante e mise i fogli sul tavolo accanto al monitor del computer. La prima cosa importante era fare delle fotocopie. Una copia sarebbe bastata a suscitare l’interesse di chiunque e quel chiunque avrebbe dovuto essere disposto a sborsare una bella cifra pur di entrare in possesso dell’originale. Che doveva rimanere in suo possesso fino alla conclusione dell’affare. Una volta fatte le fotocopie, avrebbe tenuto con sé solo la parte sufficiente a lasciare immaginare senza rivelare nulla di decisivo. Il resto lo avrebbe distrutto. La copia autentica di quella lettera benedetta l’avrebbe messa in una busta e l’avrebbe spedita a una casella di posta anonima della quale a volte si serviva. Lì avrebbe riposato finché qualcuno non gli avesse dato motivo di andarla a ritirare.
E quel motivo poteva essere rappresentato solo da una bella quantità di denaro.
Iniziò a fotocopiare, disponendo di volta in volta gli originali di fianco alla copia. Ziggy era un tipo preciso, sul lavoro. E quello era il lavoro più importante che gli fosse mai capitato nella vita.
Pose uno degli ultimi fogli sul vetro dello scanner, abbassò il coperchio e premette il pulsante di avvio. La luce di scansione percorse la macchina fino ad avere in memoria la pagina completa. Al momento di stampare, il sensore avvertì che la carta era finita e un led arancione si mise a lampeggiare sul lato sinistro dell’apparecchio.
Ziggy andò a prendere dei fogli da una risma che teneva appoggiata su uno scaffale della libreria e li introdusse nel cassettino.
In quel momento sentì un rumore alle sue spalle, un leggero crac metallico, come quello di una chiave che si spezza nella toppa. Si girò in tempo per vedere la porta che si apriva e per vedere un uomo con una giacca verde.
No, non ora, non adesso che era tutto a portata di mano…
E invece davanti a sé aveva una mano che reggeva un coltello.
Di certo era la lama con cui aveva forzato quello straccio di serratura. E dallo sguardo dell’uomo capiva che non si sarebbe limitato a quello.
Sentì che le gambe gli cedevano e non ebbe la forza di dire nulla. Mentre l’uomo avanzava verso di lui, Ziggy Stardust si mise a piangere. Per la paura del dolore e per la paura della morte.
Ma soprattutto per la delusione.
La Volvo si muoveva senza difficoltà in mezzo al traffico che la stava trascinando verso il Bronx. A quell’ora, salire verso nord poteva essere un vero e proprio viaggio. Tuttavia, una volta uscita da Manhattan, Vivien aveva trovato un flusso abbastanza fluido. Da che si era lasciata alla destra il Triborough Bridge, aveva percorso la Bruckner Expressway in un tempo relativamente breve.
Il sole stava scendendo alle sue spalle e la città si preparava al tramonto.
Il cielo aveva una luminosità azzurro cupo, netta al punto tale da parere lavorata a mano. Il colore che solo la brezza di New York sapeva regalare, quando arrivava a ripulire quel piccolo tratto di infinito che ognuno si illudeva di avere sopra di sé.
Il telefono della macchina interruppe la musica che veniva dalla radio.
L’aveva lasciata in sottofondo, a basso volume, un suono con regole e intenzioni precise a mescolarsi con il brusio informe del traffico.
Attivò il vivavoce e diede a chi la chiamava il permesso di entrare. Nella sua macchina e nei suoi pensieri.
«Vivien?»
«Sì.»
«Ciao, sono Nathan.»
Precisazione inutile. Aveva riconosciuto la voce di suo cognato.
L’avrebbe riconosciuta anche in mezzo al fragore di una battaglia.
Cosa vuoi, pezzo di merda? pensò.
«Cosa vuoi, pezzo di merda?» disse.
Ci fu un attimo di silenzio.
«Non riuscirai mai a perdonarmi, vero?»
«Nathan, il perdono è per chi si pente. Il perdono è per chi cerca di riparare al male che ha fatto.»
L’uomo dall’altra parte attese un attimo, per dare modo a quelle parole di perdersi nella distanza che li separava. In ogni senso.
«Hai visto Greta di recente?»
«E tu?»
Vivien lo aggredì, sentendo salire quella voglia di picchiarlo che provava ogni volta che si trovava in sua presenza o semplicemente lo sentiva. In quel momento, se fossa stato seduto al suo fianco, gli avrebbe spezzato il naso con una gomitata.
«Quanto tempo è che non vedi tua moglie? Quanto tempo è che non vedi tua figlia? Per quanto tempo ancora credi di poterti nascondere?»
«Vivien, io non mi nascondo. Io…»
«Io un cazzo, brutto figlio di puttana!»
Aveva urlato. E aveva sbagliato a farlo. Il disprezzo che provava per quell’uomo non doveva essere manifestato con un ruggito. Doveva essere espresso con il sibilo del serpente.
E serpente divenne.
«Nathan, tu sei un vigliacco. Lo sei sempre stato e sempre lo sarai. E quando ti sei trovato davanti a delle difficoltà troppo grandi per te hai fatto l’unica cosa che sai fare: sei scappato.»
«Io ho sempre provveduto a tutte le loro necessità. A volte ci sono scelte che…»
Lo interruppe bruscamente.
«Tu non avevi scelte. Avevi delle responsabilità. E te le dovevi assumere. Quello straccio di assegno che mandi tutti i mesi non è sufficiente a compensare la tua latitanza. E nemmeno a mettere in pace la tua coscienza. Dunque adesso non chiamarmi per sapere come sta tua moglie. Non chiamarmi per sapere come sta tua figlia. Se vuoi sentirti meglio, alza quel maledetto culo sul quale sei seduto e vai a vederlo di persona.»
Premette con tanta rabbia il pulsante di fine comunicazione che per un istante ebbe timore che si fosse rotto. Rimase per qualche istante a guardare davanti a sé, guidando e ascoltando il battito forsennato del suo cuore. Poche lacere lacrime di rabbia le scesero lungo le guance. Se le asciugò con il dorso della mano e cercò di calmarsi.
Per dimenticare il posto dove era stata quel mattino e il posto verso il quale stava andando ora, si rifugiò nell’unico luogo sicuro che aveva: il suo lavoro.
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