Giorgio Faletti - Io sono Dio

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Non c’è morbosità apparente dietro le azioni del serial killer che tiene in scacco la città di New York. Non sceglie le vittime seguendo complicati percorsi mentali. Non le guarda negli occhi a una a una mentre muoiono, anche perché non avrebbe abbastanza occhi per farlo. Una giovane detective che nasconde i propri drammi personali dietro a una solida immagine e un fotoreporter con un passato discutibile da farsi perdonare sono l’unica speranza di poter fermare uno psicopatico che nemmeno rivendica le proprie azioni. Un uomo che sta compiendo una vendetta terribile per un dolore che affonda le radici in una delle più grandi tragedie americane. Un uomo che dice di essere dio.

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L’ambiente chiuso e la scarsa umidità lo avevano parzialmente mummificato, per cui era molto più integro del normale. E dunque era molto più difficile ipotizzare da quanto tempo se ne stesse nascosto fra quelle pareti.

Chi sei? Chi ti ha ucciso?

Vivien sapeva che per le famiglie di persone scomparse la cosa peggiore era l’ansia di non sapere. Qualcuno e quando

una sera, un giorno

usciva di casa e senza una ragione non ci faceva più ritorno. E in assenza della prova di un corpo, per tutta la vita le persone a lui vicine si sarebbero chieste che cosa, dove e perché. Senza mai smettere di alimentare una speranza che solo il tempo sapeva spegnere con pazienza.

Si riscosse e tornò alla sua ispezione.

Quando illuminò il terreno, si accorse che a terra, vicino ai piedi del cadavere, c’era un oggetto coperto di polvere che a prima vista sembrava una specie di portafoglio. Si fece dare un paio di guanti di lattice, si infilò nell’apertura e si chinò per raccoglierlo. Poi si rialzò e fece un gesto ai tecnici della Scientifica e al medico legale.

«Prego signori, tocca a voi.»

Mentre i tecnici si mettevano all’opera, esaminò l’oggetto che aveva in mano.

Soffiò delicatamente per togliere il velo di polvere. Il materiale era una finta pelle che doveva essere stata nera o marrone e più che un portafoglio sembrava un portadocumenti. Con cautela lo aprì. I fogli di plastica dura all’interno erano incollati e si separarono con un leggero rumore di carta stracciata.

Dentro, una per ogni lato, c’erano due foto.

Sollevò la protezione e infilò delicatamente le dita per estrarle senza rovinarle. Le esaminò alla luce della torcia. Nella prima, un ragazzo in elmetto e divisa da combattimento era appoggiato a un carro armato e guardava con occhi seri l’obiettivo. Intorno c’era una vegetazione che richiamava un Paese esotico. La girò e dietro la accolse una scritta sbiadita dal tempo, che aveva quasi cancellato alcune lettere, ma non a sufficienza da renderle illeggibili.

Cu Chi District 1971

La seconda, molto meglio conservata, la sorprese. Il soggetto era lo stesso ragazzo che in quella precedente guardava il fotografo con aria riflessiva. Qui era in borghese, con una T-shirt a disegni psichedelici e dei pantaloni da lavoro. In quest’immagine aveva i capelli lunghi e sorrideva, tendendo verso l’obiettivo un grosso gatto nero. Studiò attentamente la persona e l’animale. All’inizio pensò che si trattasse di una deformazione provocata dalla prospettiva, ma poi si rese conto che la prima impressione era stata quella giusta.

Il gatto aveva solo tre zampe.

Dietro non c’era nessuna scritta.

Si fece dare da Bowman, l’altro agente, due buste di plastica e ci infilò il portadocumenti e le fotografie. Raggiunse Frank Ritter, il caposquadra della Scientifica con il quale aveva già collaborato in passato, e gliele porse.

«Vorrei che analizzaste questo materiale. Impronte digitali, se ce ne sono, e un esame dei vestiti della vittima con annessi e connessi. Inoltre vorrei un ingrandimento delle foto.»

«Vedremo quel che si può fare. Ma se fossi in te non ci farei troppo affidamento. Mi sembra tutto piuttosto datato.»

E avevo bisogno che me lo dicessi tu…

Vide che nel frattempo il cadavere era stato spostato e appoggiato con delicatezza su una barella. Il medico legale era in piedi davanti al corpo. Si avvicinò per esaminarlo. Quello che era stato un uomo aveva raggiunto il suo ultimo giorno indossando un giubbetto di panno e un paio di pantaloni che all’apparenza dovevano essere stati di una qualità del tutto ordinaria.

Il coroner girò intorno alla barella e si mise al fianco di Vivien.

Limitarono le presentazioni al minimo indispensabile.

«Jack Borman.»

«Vivien Light.»

Sapevano tutti e due chi erano, dov’erano e cosa stavano facendo. Ogni altra considerazione, in quel momento, passava in secondo piano.

«Riesce a darmi un’idea delle cause della morte?»

«Dalla posizione della testa del cadavere, senza usare termini tecnici, posso azzardare che qualcuno gli ha spezzato l’osso del collo. Con che cosa non lo so. Sarò più chiaro dopo l’autopsia.»

«Da quanto tempo pensa che sia lì?»

«Dallo stato di conservazione del corpo direi circa una quindicina d’anni.

Però contano anche le condizioni del luogo in cui era nascosto. Comunque ci arriveremo con le analisi dei tessuti. In questo credo potranno anche essere utili gli esami della Scientifica sulla stoffa dei vestiti.»

«Grazie.»

«Non c’è di che.»

Mentre il coroner si allontanava, Vivien si rese conto che tutto quello che si poteva fare era stato fatto. Diede l’ordine di rimuovere la salma, salutò i presenti e lasciò gli uomini alle loro incombenze. A questo punto, ritenne inutile parlare con l’operaio che aveva trovato per primo il corpo.

Aveva dato a Bowman l’incarico di prendere i dati di tutte le persone che avrebbero potuto essere utili alle indagini. Le avrebbe sentite in un secondo tempo, compreso il signor Charles Brokens proprietario della compagnia che tutte le mattine si svegliava con quella moglie nel letto.

In un caso di omicidio come quello, i dati più interessanti di solito venivano dalle rilevazioni tecniche più che dalle testimonianze. Dopo di che avrebbe messo a punto un piano d’azione.

Fece a ritroso il percorso che l’aveva portata sul luogo di un delitto vecchio di anni e si ritrovò fuori dal cantiere. Gli operai la guardarono con un misto di ammirazione e soggezione. Se li lasciò alle spalle e si incamminò verso il Distretto per recuperare la macchina. Aveva bisogno di pensare e il fragoroso anonimato di New York era paradossalmente l’ambiente giusto.

Bellew le aveva assegnato un caso non facile. Forse perché la riteneva in grado di risolverlo, ma la stima in quel frangente era sinonimo di castagne da levare dal fuoco. E dai fatti emersi, erano castagne che nel fuoco ci stavano minimo da quindici anni, talmente abbrustolite da essere degli irriconoscibili pezzi di carbone.

Passò davanti alla vetrina di un bar e d’istinto diede uno sguardo all’interno. Seduto a un tavolo, con una ragazza bionda dai capelli lunghi, c’era Richard. I due stavano parlando e guardandosi in un modo che escludeva una semplice amicizia. Si sentì una guardona e si allontanò in fretta, prima che lui potesse vederla, anche se pareva non avere occhi che per la sua compagna. Non era stupita di trovarlo lì. Abitava da quelle parti e in quel bar c’erano stati insieme diverse volte.

Forse sarebbe stato meglio qualche volta di più.

Con lui aveva avuto una storia che era durata un anno, piena di risate, cibo e vino e sesso tenero e delicato. Un rapporto che era stato a un passo da poter essere definito amore.

Ma lei, con il suo lavoro e con la situazione di Sundance e di sua sorella, aveva trovato sempre meno possibilità di dedicarsi a loro due. Alla fine quel passo si era rivelato troppo lungo per le loro poche gambe e la storia era finita.

Mentre camminava, si rese conto che il suo problema era lo stesso di tutte le persone che si muovevano in quella strada e in quella città e in quel mondo, con la presunzione di vivere e la certezza di morire. Purtroppo non c’era nessun mondo alternativo e nessuno di loro, per quanto si illudesse di farlo durare il più possibile, aveva in realtà tempo a sufficienza.

CAPITOLO 10

Ziggy Stardust sapeva mimetizzarsi.

Era capace di essere un perfetto nessuno fra i milioni di nessuno che ogni giorno respiravano l’aria di New York. Era un perfetto esempio di né questo né quello: né alto né basso, né grasso né magro, né bello né brutto.

Uno splendido uomo da niente, di quelli che non si notano, che non si ricordano, che non si amano.

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