Giorgio Faletti - Io sono Dio

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Non c’è morbosità apparente dietro le azioni del serial killer che tiene in scacco la città di New York. Non sceglie le vittime seguendo complicati percorsi mentali. Non le guarda negli occhi a una a una mentre muoiono, anche perché non avrebbe abbastanza occhi per farlo. Una giovane detective che nasconde i propri drammi personali dietro a una solida immagine e un fotoreporter con un passato discutibile da farsi perdonare sono l’unica speranza di poter fermare uno psicopatico che nemmeno rivendica le proprie azioni. Un uomo che sta compiendo una vendetta terribile per un dolore che affonda le radici in una delle più grandi tragedie americane. Un uomo che dice di essere dio.

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«Jeremy, che succede qui?»

«Come le ho detto al telefono, durante gli scavi abbiamo trovato il corpo di un uomo.»

«Va bene, ma i lavori non si possono certo fermare per questo. Ha idea di quanto costa ogni giorno questo cantiere all’impresa?»

Cortese si era stretto nelle spalle e aveva fatto un istintivo gesto con le mani in direzione di Vivien.

«Stavamo aspettando l’arrivo della Polizia.»

Solo in quel momento la donna parve accorgersi della sua presenza. La squadrò da capo a piedi, con un’espressione che Vivien decise non valeva la fatica di essere decifrata. Qualunque fosse stato l’esame, abbigliamento o aspetto o età, sapeva di non averlo superato.

«Agente, vediamo di risolvere al più presto questo increscioso incidente.»

Vivien piegò leggermente la testa di lato e le sorrise.

«Con chi ho il piacere di parlare?»

La donna tirò fuori un tono da proclama.

«Elisabeth Brokens. Mio marito è Charles Brokens, il proprietario della compagnia.»

«Bene, signora Elisabeth Brokens moglie di Charles Brokens proprietario della compagnia, un increscioso incidente potrebbe essere ad esempio il naso che le ha messo in faccia il suo chirurgo plastico. Quello che è successo qui, tutto il resto del mondo si ostina a chiamarlo omicidio.

E come lei ben sa, questa pratica tende a essere perseguita dalla legge.

Che, mi permetto di farle notare, ha la prelazione sul bilancio della compagnia.»

Smise di sorridere e cambiò tono di colpo.

«E se lei non si leva dai piedi la faccio arrestare per intralcio a un’indagine della Polizia di New York.»

«Come si permette? Mio marito è un amico personale del capo della Polizia e…»

«E allora vada a lamentarsi con lui, cara signora Elisabeth Brokens moglie di Charles Brokens amico personale del capo della Polizia. E mi lasci fare il mio lavoro.»

Le girò le spalle, lasciandola scolpita nel suo marmo a immaginare chissà quale ritorsione nei suoi confronti. Si avviò verso l’apertura nella recinzione che secondo il suo giudizio doveva essere l’ingresso del cantiere.

Jeremy Cortese le si mise di fianco. Il suo viso era beato e incredulo.

«Signorina, il giorno che avesse un cantiere da dirigere, sarei lieto di farlo gratis, per lei. La faccia della signora Brokens dopo il suo discorso resterà fra i ricordi più belli della mia vita.»

Ma Vivien quasi non sentì le sue parole. Ormai con la mente era già altrove. Come superarono la soglia si rese conto della situazione con un solo colpo d’occhio. Poco oltre i loro piedi, delimitato da una rete di protezione, si apriva un buco nel terreno, grande circa tre quarti dell’area del cantiere e profondo quanto un interrato. Il fondo era il pavimento di due edifici diversi ed era diviso a metà dalla linea di materiali differenti.

Dalla parte opposta c’era ancora parte del piano a livello strada da demolire, ma il grosso del lavoro era stato fatto. In basso, i due agenti stavano finendo di circoscrivere un’area nell’angolo di sinistra. Un operaio era in piedi alle loro spalle, appoggiato a un muro, in attesa.

Cortese le fornì delle risposte prima che facesse le domande.

«La Sonora ha rilevato due vecchi edifici che stavano uno accanto all’altro. Li stiamo demolendo per costruire un condominio. Come vede, siamo quasi alla fine.»

Vivien indicò il pavimento diviso in due.

«Cosa c’era prima qui?»

«Di qua appartamenti e al piano strada un ristorante. Cucina italiana, mi pare. Abbiamo rimosso un sacco di vecchie attrezzature. Dall’altra parte un piccolo garage. Credo che sia stato realizzato successivamente alla costruzione dell’edificio, perché abbiamo trovato tracce di ristrutturazione.»

«Sa chi erano i proprietari?»

«No. Ma la compagnia ha di certo tutte le documentazioni che le servono.»

Cortese si mosse e Vivien lo seguì. Raggiunsero l’angolo alla loro destra, dove una scala di cemento, residuo delle costruzioni precedenti, scendeva al livello inferiore. Il cantiere deserto dava un senso di desolazione, con i martelli pneumatici appoggiati a terra e il grosso mezzo giallo con la benna perforatrice lasciato da una parte con il motore spento. C’era tutto intorno il malessere grigio della distruzione senza la promessa colorata della rinascita.

Mentre imboccavano la scala, due tecnici della Scientifica comparvero, carichi dei loro strumenti. Vivien fece un cenno e loro si avviarono per raggiungerli.

La detective e Cortese scesero la scala e arrivarono camminando in silenzio dai due agenti in attesa. Cortese si fermò a un paio di passi di distanza dalla linea gialla. Victor Salinas, un ragazzo alto e bruno che aveva un debole per Vivien e il cui sguardo non ne faceva mistero, attese che la detective arrivasse alla sua altezza e poi alzò la striscia gialla per permetterle di passare.

«Com’è la situazione?»

«A prima vista direi normale e complicata nello stesso tempo. Vieni a vedere.»

Nella parte finale il muro aveva una specie di intercapedine quadrata.

Vivien girò la testa e vide che dalla parte opposta ce n’era un’altra uguale.

Probabilmente uno o più pilastri, ormai demoliti, seguivano quella linea.

Davanti a lei, da uno squarcio nel cemento, sporgeva un avambraccio coperto da quello che restava di un giubbetto di panno. Un teschio con tracce di pelle incartapecorita e un residuo di capelli si intravedeva all’interno, con il suo sorriso allegorico da Feria de los muertos e il suo significato terreno di morte violenta.

Vivien si avvicinò al muro. Osservò con attenzione il braccio, il corpo, la stoffa della manica. Cercò di sbirciare dentro, cercando di cogliere ogni dettaglio, per costruire quella prima impressione che sovente si rivelava esatta.

Si girò e vide che quelli della Scientifica e un uomo sui quaranta con una giacca sportiva e un paio di jeans erano fuori delle transenne in attesa di istruzioni. Vivien non lo aveva mai visto ma dall’aria vagamente annoiata capì che doveva essere il medico legale. Probabilmente si era unito a loro mentre esaminava il corpo.

Vivien li raggiunse.

«Okay. Vediamo di tirarlo fuori di lì.»

Jeremy Cortese si fece avanti e indicò l’operaio che stava in piedi in disparte.

«Se volete, ho un mio uomo che non ha problemi alla vista di un cadavere. Conosce il suo mestiere e quando è libero aiuta suo cognato che ha un’impresa di onoranze funebri.»

«Lo chiami.»

Il capo cantiere fece un cenno all’operaio, che si mosse verso di loro. Era un tipo poco oltre la trentina, con un viso da ragazzo e tratti vagamente orientali. Dal casco spuntavano dei lucidi capelli scuri. Vivien pensò che nel suo albero genealogico ci dovesse essere qualcosa di asiatico.

Senza una parola li superò, si avvicinò alla parete e si chinò per prendere da terra il martello pneumatico.

Vivien si mise al suo fianco.

«Lei come si chiama?»

«Tom. Tom Dickson.»

«Bene Tom, questa è una faccenda delicata che deve essere portata a termine con estrema cautela. Tutto quello che c’è all’interno di questa nicchia potrebbe essere molto importante. Se per lei è uguale, preferirei usasse mazza e scalpello, anche se è un lavoro più lungo e faticoso.»

«Stia tranquilla. So quello che faccio. Troverà tutto come le serve.»

Vivien gli appoggiò una mano sulla spalla.

«Mi fido di te, Tom. Procedi.»

Dovette ammettere che quell’uomo sapeva davvero il fatto suo. Ampliò la breccia in modo che l’interno fosse accessibile, facendo cadere le macerie verso l’esterno ma senza spostare di un pollice la posizione del cadavere.

Vivien si fece dare una torcia elettrica da Salinas e si avvicinò per dare uno sguardo nella nicchia. La luce del giorno era ancora abbastanza forte ma all’interno c’era una leggera penombra che non permetteva di distinguere bene tutti i particolari. E Dio sapeva di quanti particolari ci fosse bisogno in un caso come quello. Fece correre il raggio luminoso sulle pareti e sui resti dell’uomo. L’esiguità dello spazio aveva impedito al corpo di scivolare a terra. Se ne stava appoggiato sul lato sinistro, la testa piegata in un angolo innaturale. Questo dettaglio aveva dato l’impressione, vedendolo dall’esterno, che avesse la testa appoggiata sulla spalla.

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