Giorgio Faletti - Io sono Dio

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Non c’è morbosità apparente dietro le azioni del serial killer che tiene in scacco la città di New York. Non sceglie le vittime seguendo complicati percorsi mentali. Non le guarda negli occhi a una a una mentre muoiono, anche perché non avrebbe abbastanza occhi per farlo. Una giovane detective che nasconde i propri drammi personali dietro a una solida immagine e un fotoreporter con un passato discutibile da farsi perdonare sono l’unica speranza di poter fermare uno psicopatico che nemmeno rivendica le proprie azioni. Un uomo che sta compiendo una vendetta terribile per un dolore che affonda le radici in una delle più grandi tragedie americane. Un uomo che dice di essere dio.

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Si sporse per prendere la pistola dal cassetto davanti al sedile del passeggero e la infilò nella tasca del giubbotto. Tirò fuori il cellulare e si concesse un altro istante, prima di accenderlo e tornare sulla terra.

Nello specchietto laterale vide due agenti del Distretto uscire dalla porta a vetri dell’ingresso, scendere la scalinata, salire sull’auto e partire veloci, le luci lampeggianti e la sirena accesa. Una chiamata, una delle tante che arrivavano ogni giorno: un’emergenza, una necessità, un crimine. Uomini donne ragazzi che ogni giorno in quella città camminavano in mezzo al pericolo senza possibilità di prevederlo e di combatterlo.

Loro erano lì per quello.

Cortesia

Professionalità

Rispetto

Questo era scritto sulle portiere delle auto della Polizia. Purtroppo non sempre la cortesia, la professionalità e il rispetto bastavano a proteggere tutta quella gente dalla violenza e dalla pazzia umana. A volte, per poterla combattere, un poliziotto doveva permettere che una piccola parte di quella follia entrasse dentro di lui. Con il difficile compito di esserne consapevole e di riuscire a tenerla a bada. Questo faceva la differenza fra loro e le persone con le quali a volte erano costretti a scambiare violenza con violenza. Questo era il motivo per cui lei portava i capelli corti, sorrideva raramente, aveva un distintivo in tasca e una pistola appesa alla cintura.

Senza una ragione, le venne in mente un’antica favola indiana, quella che aveva raccontato un tempo a Sundance e che narrava di un vecchio Cherokee seduto davanti al tramonto con suo nipote.

«Nonno, perché gli uomini combattono?»

Il vecchio, gli occhi rivolti al sole calante, al giorno che stava perdendo la sua battaglia con la notte, parlò con voce calma.

«Ogni uomo, prima o poi, è chiamato a farlo. Per ogni uomo c’è sempre una battaglia che aspetta di essere combattuta, da vincere o da perdere.

Perché lo scontro più feroce è quello che avviene fra i due lupi.»

«Quali lupi, nonno?»

«Quelli che ogni uomo porta dentro di sé.»

Il bambino non riusciva a capire. Attese che il nonno rompesse l’attimo di silenzio che aveva lasciato cadere fra loro, forse per accendere la sua curiosità. Infine, il vecchio che aveva dentro di sé la saggezza del tempo riprese con il suo tono calmo.

«Ci sono due lupi in ognuno di noi. Uno è cattivo e vive di odio, gelosia, invidia, risentimento, falso orgoglio, bugie, egoismo.»

Il vecchio fece di nuovo una pausa, questa volta per dargli modo di capire quello che aveva appena detto.

«E l’altro?»

«L’altro è il lupo buono. Vive di pace, amore, speranza, generosità, compassione, umiltà e fede.»

Il bambino rimase a pensare un istante a quello che il nonno gli aveva appena raccontato. Poi diede voce alla sua curiosità e al suo pensiero.

«E quale lupo vince?»

Il vecchio Cherokee si girò a guardarlo e rispose con occhi puliti.

«Quello che nutri di più.»

Vivien aprì la portiera e scese dalla macchina. Accese il telefono, che non appena trovò campo si mise subito a squillare.

Lo portò all’orecchio e d’istinto rispose come se fosse seduta alla sua scrivania.

«Detective Light.»

«Sono Bellew. Dove sei?»

«Proprio qui sotto. Sto entrando.»

«Bene, scendo. Ci vediamo nell’atrio.»

Vivien salì i gradini, superò la porta a vetri e fu all’interno dell’edificio, un punto d’arrivo e di partenza per un campionario di umanità dolente e transitoria. Gente che la vita aveva schiantato, gente che aveva schiantato vite. Ognuno di loro aveva lasciato dietro di sé un residuo che portava immagini alla mente e che si respirava nell’aria. A sinistra, dietro un bancone che occupava tutta la parete, c’erano gli agenti in servizio. I loro piedi poggiavano su una pedana, in modo che chiunque si trovasse davanti a loro fosse costretto a guardare verso l’alto. Alle loro spalle un muro coperto di piastrelle che una volta erano state bianche. Come nelle fiabe, Vivien non sapeva risalire all’origine di quella volta. Ora alcune erano sbrecciate, la fuga era una ragnatela grigiastra e il bianco coperto da una patina opaca che solo il tempo passato male può dare.

Un uomo di colore con le mani ammanettate dietro la schiena era davanti al bancone, con un agente in divisa di fianco che lo teneva per un braccio e un altro dietro al desk che stava formalizzando i dettagli dell’arresto.

Vivien entrò e rispose con un gesto al cenno di saluto dell’agente. Girò a destra e si trovò in un’ampia stanza, dipinta di un colore anonimo, con sedie allineate al centro e un pannello bianco appeso al muro di fronte. Un altro stava su un cavalletto, accanto a una scrivania rialzata. Quella era la sala riunioni dove agli agenti in servizio veniva comunicato l’ordine del giorno e dove si impartivano le direttive generali per le operazioni.

Il capitano Alan Bellew, il suo diretto superiore, sbucò da una porta a vetri che si apriva su un corridoio, di fronte all’ingresso. La vide e venne verso di lei, col suo passo veloce che dava un senso di vigoria fisica. Era un uomo alto, pratico, capace, che amava il suo lavoro e sapeva farlo bene.

Conosceva la difficile situazione famigliare di Vivien. Nonostante la sua giovane età e il fardello che le pesava addosso, i suoi indiscutibili meriti sul lavoro l’avevano spinto a tenerla in particolare considerazione. Fra loro era nato un rapporto di stima reciproca che li aveva portati a collaborare con ottimi risultati. Sia umani che professionali. Uno dei colleghi di Vivien una volta l’aveva definita «La cocca del capitano», ma quando Bellew l’aveva saputo aveva preso da parte il detective e gli aveva fatto un breve discorso. Nessuno sapeva quello che gli aveva detto, ma da quel momento in poi ogni allusione era scomparsa.

Quando fu di fronte a lei, secondo il suo abituale modo di fare, andò subito al sodo.

«C’è appena stata una chiamata. Abbiamo un omicidio. Un cadavere che a quanto pare è vecchio di anni. È saltato fuori in un cantiere durante dei lavori di demolizione. Era murato nella parete divisoria fra due seminterrati.»

Fece una pausa. Quel tanto che bastava per darle il tempo di focalizzare la situazione.

«Mi piacerebbe che te ne occupassi tu.»

«Dov’è?»

Bellew fece un istintivo cenno con la testa verso un punto imprecisato.

«A due isolati da qui, sulla 23sima all’angolo con la Terza. La Scientifica dovrebbe essere già lì. Anche il coroner è per strada. Sul posto ci sono Bowman e Salinas per tenere sotto controllo la situazione, finché non arrivi.»

Vivien realizzò in quel momento dove erano diretti i due agenti che aveva visto partire poco prima.

«Non è un affare che riguarda quelli della Cold Case?»

La Cold Case Squad era il dipartimento della Polizia a cui erano delegati i casi di omicidio ancora irrisolti dopo parecchi anni. Freddi, per l’appunto.

E stando alle parole del capitano, quello ci rientrava alla perfezione.

«Per ora ce ne occupiamo noi. Poi vedremo se sarà opportuno trasferirlo a loro.»

Vivien sapeva che per carattere il capitano Alan Bellew riteneva il 13° Distretto un suo territorio personale e che sopportava a fatica le intromissioni di agenti che non fossero alle sue dirette dipendenze.

Vivien fece un cenno di assenso.

«Okay. Ci vado subito.»

In quel momento, da una porta sul lato destro del bancone, dalla parte opposta dell’atrio, uscirono due uomini. Uno era più anziano, con i capelli grigi e il viso abbronzato.

Vela forse, o golf.

O forse tutte e due, pensò Vivien.

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