Il vestito scuro, la valigetta di cuoio e l’aria seria erano i tre elementi che gli appendevano al collo un cartello con scritta una parola: avvocato.
L’altro era più giovane, sui trentacinque anni. Indossava un paio di occhiali scuri e sul viso sciupato c’era una barba di qualche giorno. Il suo abbigliamento era decisamente più sportivo, anche se i vestiti portavano le tracce della notte che aveva passato in cella. E non solo di quella, visto che aveva un segno su un labbro e la manica sinistra della giacca era stracciata all’attaccatura della spalla.
I due uscirono senza guardarsi intorno. Vivien e Bellew li seguirono con gli occhi, finché scomparvero oltre il dondolio della porta a vetri. Il capitano fece un mezzo sorriso.
«Stanotte al Plaza abbiamo avuto ospite una celebrità.» Vivien conosceva bene il significato di quella frase. Al piano superiore, sul lato di uno stanzone dove stavano una accanto all’altra le scrivanie dei detective, così vicine da sembrare ammassate come in una esposizione di mobili da ufficio, c’era una cella. Di solito ci venivano parcheggiati gli arrestati, a volte per una intera notte, in attesa di essere liberati su cauzione o trasferiti al carcere vicino a Chinatown. Ironicamente l’avevano battezzata Il Plaza, per la scomodità delle lunghe panche di legno assicurate alle pareti.
«Chi è quel tipo?»
«Russell Wade.»
« Quel Russell Wade? Quello che ha vinto il Pulitzer a venticinque anni?
E che gli hanno tolto tre mesi dopo?»
Il capitano fece un cenno del capo. Il sorriso era scomparso dalle sue labbra.
«Già. Proprio lui.»
Vivien sapeva capire quando nella voce del suo superiore c’era una traccia di umana amarezza. Chiunque l’avrebbe provata di fronte a un sistematico e quasi compiaciuto tentativo di autodistruzione. Per motivi personali, anche lei conosceva bene quella situazione.
«L’abbiamo beccato ieri sera, in una retata in una bisca clandestina, ubriaco fradicio. Ha fatto resistenza all’arresto. Credo che si sia beccato pure un cazzotto da Tyler.»
Bellew archiviò subito quella breve parentesi fra le pratiche evase e rimise il motivo del loro incontro al centro della discussione.
«Con buona pace dei vivi, credo che ora tu debba occuparti di un morto.
Ha aspettato tanto, non facciamolo aspettare ancora.»
«Penso che ne abbia tutto il diritto.»
Bellew la lasciò sola e Vivien si ritrovò fuori, nell’aria dolce di quel pomeriggio di tarda primavera. Scese i pochi gradini e per un istante ebbe alla sua destra una fugace visione di Russell Wade e dell’avvocato che sparivano in una limousine con autista. La macchina si mosse e le sfilò davanti. L’ospite di una notte al Plaza si era tolto gli occhiali e attraverso il vetro aperto i loro sguardi si incrociarono. Vivien entrò per un attimo in due intensi occhi scuri e rimase stupita dalla immensa tristezza che ci trovò dentro. Poi la macchina passò oltre e quel viso sparì nel movimento e dietro lo schermo del finestrino elettrico. Per un istante due pianeti ai confini opposti della galassia si erano sfiorati ma la distanza era stata ristabilita dalla semplice barriera di un cristallo oscurato.
Un attimo solo e Vivien ritornò chi era e a quello che il mondo si aspettava da lei. Il posto dove avevano trovato il corpo era talmente vicino che avrebbe fatto prima ad andarci a piedi. E intanto già stava elaborando le poche informazioni che erano in suo possesso. Un cantiere era spesso un luogo ideale dove far sparire per sempre una persona indesiderata. Non sarebbe stata la prima volta e nemmeno l’ultima. Un delitto, un corpo nascosto nel cemento, una vecchia storia di violenza e follia.
Quale lupo vince?
Lo scontro fra i lupi era iniziato con l’inizio del tempo. Nel viaggio dei secoli c’era sempre stato qualcuno che aveva nutrito il lupo sbagliato.
Vivien si mosse, con l’inevitabile eccitazione che ogni volta la faceva avvicinare a un nuovo caso. E con la consapevolezza che, l’avesse risolto o meno, come ogni volta tutti ne sarebbero usciti sconfitti.
Arrivò al cantiere risalendo la Terza Avenue.
Aveva camminato passando semafori, costeggiando vetrine di bar, incrociando gente, persona normale fra persone normali. Adesso doveva uscire dall’anonimato che fino a quel momento l’aveva confusa con la varia umanità intorno a lei per assumere un ruolo esclusivo. L’arrivo di un detective sulla scena di un delitto era un momento particolare, come per un attore l’apertura di un sipario. Nessuno avrebbe mosso un dito prima dell’arrivo dell’incaricato dell’indagine. Conosceva le sensazioni che avrebbe provato. E sapeva che, come sempre, sarebbe stata ben lieta di poterne fare a meno. Il luogo dove era stato commesso un omicidio, recente o datato che fosse, non era privo di un suo fascino nefando. Teatri di stragi erano diventati nel tempo addirittura delle mete turistiche. Per lei era un posto dove abbandonare le emozioni e svolgere il suo lavoro. Tutte le ipotesi che poteva aver costruito nella sua testa durante quel breve tragitto stavano per passare alla prova dei fatti.
La macchina della polizia era parcheggiata a lato del marciapiede, protetta dalle transenne di plastica arancione che delimitavano quella parte dell’area del cantiere che invadeva la corsia stradale. Bowman e Salinas, i due agenti mandati da Bellew, non si vedevano. Probabilmente erano all’interno, dove stavano circoscrivendo con le strisce gialle la zona in cui era stato trovato il corpo.
Gli operai erano radunati davanti all’ingresso di una delle due baracche ai lati del cantiere. In piedi, leggermente scostati, c’erano altri due uomini, un nero alto e grosso e un bianco con una giacca da lavoro di tela blu. Tutti i presenti sembravano avere il nervosismo come unico motore dei loro movimenti. Vivien riusciva a capire benissimo il loro stato d’animo. Non capita tutti i giorni di abbattere un muro e trovarsi davanti a un cadavere.
Si avvicinò ai due, mostrando il distintivo.
«Buongiorno. Credo stiate aspettando me. Sono il detective Vivien Light.»
Se erano rimasti sorpresi di vederla arrivare a piedi, non lo dimostrarono. Il sollievo per la sua presenza, per avere finalmente davanti qualcuno a cui fare riferimento, superava qualsiasi altra considerazione.
Il bianco parlò per tutti e due.
«Sono Jeremy Cortese, il capo cantiere. E questo è Ronald Freeman, il mio secondo.»
Vivien affrontò subito l’argomento, certa che anche i due non vedevano l’ora.
«Chi ha scoperto il cadavere?»
Cortese indicò il gruppo di operai dietro a loro.
«Jeff Sefakias. Stava abbattendo un muro e…»
Vivien lo interruppe.
«Va bene. Con lui parlerò dopo. Adesso vorrei fare un sopralluogo.»
Cortese mosse un passo verso l’ingresso del cantiere.
«Da questa parte. Le faccio strada.»
Freeman rimase dov’era.
«Se fosse possibile, vorrei evitare di rivedere quel… quella cosa.»
Vivien trattenne a stento un sorriso di simpatia. Lo fece perché poteva essere travisato e sembrare un atteggiamento di derisione. Non c’era ragione di umiliare quella che a istinto le pareva una brava persona. Per l’ennesima volta Vivien dovette rendersi conto dell’estrema imprevedibilità di chi era preposto ad abbinare i corpi e le menti. La stazza di quell’uomo avrebbe messo paura a chiunque e invece era lui a essere impressionato da una scena cruenta.
In quel momento una grossa berlina scura si fermò a lato delle transenne.
L’autista si precipitò ad aprire la portiera al passeggero sul sedile posteriore. Dalla macchina scese una donna. Era alta, bionda e doveva essere stata bella. Adesso era solo un manifesto della inutile battaglia di certe femmine contro l’imparzialità del tempo. Anche se l’abbigliamento era casual, i capi che indossava erano tutti firmati. Sapeva di boutique della Quinta Avenue, Sacks, sedute di massaggi in Spa esclusive, profumo francese e puzza sotto il naso. Senza degnare Vivien di un’occhiata, si rivolse direttamente a Cortese.
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