Nel frattempo la fila alla cassa si era accorciata e dopo poco si trovò davanti alla ragazza che gli aveva sorriso quando era entrato. A un primo sguardo distratto l’aveva giudicata molto più giovane. Ora che la vedeva da vicino, si rese conto che non avrebbe potuto essere sua figlia. Lei sorrise come se fosse disposta a diventare per lui qualcosa di diverso. Jeremy pensò che probabilmente lo faceva con tutti. Pesò i suoi contenitori, pagò la cifra che gli venne richiesta e lasciò la donna a sorridere nello stesso modo al cliente successivo.
Si diresse sul fondo del locale e si sistemò da solo a un tavolo per due. Il pollo manteneva quello che prometteva, vale a dire poco. Lo abbandonò quasi subito. Si dedicò all’insalata, pensando a quanto aveva insistito Jenny, quando stavano ancora insieme, perché mangiasse più verdura.
Tutto succede troppo tardi. Sempre troppo tardi…
Inseguì con la lingua i frammenti di insalata che si infilavano fra i denti e li fece sparire dal sorriso con sorsate della birra che aveva preso dal frigo delle bevande.
Il pensiero ritornò alla riunione del mattino con Val Courier, architetto di chiara fama e dubbia sessualità, e Fred Wyring, ingegnere dal calcolo più che sospetto, al quale si era aggiunta la moglie del proprietario della compagnia. La signora Elisabeth Brokens, che sembrava un opuscolo del Botox, stanca di passare da un analista all’altro, aveva deciso che la miglior cura per le sue nevrosi sarebbe stata il lavoro. Non avendo un’attitudine, una preparazione, un’idea, l’unica strada percorribile era stata quella di appoggiarsi al marito. Forse si era liberata delle sue nevrosi, ma solo perché le stava distribuendo a piene mani a tutte le persone con cui veniva in contatto.
Jeremy Cortese non aveva titoli di studio ma la sua laurea se l’era guadagnata sul campo. Giorno dopo giorno, lavorando sodo e imparando da chi ne sapeva più di lui. Trovava le discussioni con gli incompetenti una perdita di tempo, della quale prima o poi avrebbe dovuto rendere conto a qualcuno, nella fattispecie al signor Brokens in persona. Che il suo lavoro lo conosceva bene ma evidentemente non conosceva altrettanto bene la moglie, se le lasciava mettere il becco.
Ogni volta che la vedeva arrivare, era tentato di far scattare il cronografo, per documentare al suo capo quanto tempo gli costava una visita della sua signora al cantiere. Forse sarebbe stato meglio per lui continuare a pagare le parcelle degli analisti. E magari anche quelle di un giovane maestro di tennis o di golf disposto a fare gli straordinari.
Era così immerso nei suoi pensieri che non vide Ronald Freeman entrare. Solo quando fu in piedi di fronte a lui la percezione della sua presenza gli fece alzare lo sguardo dall’insalata.
«Abbiamo un problema.»
Ron fece una pausa e appoggiò le mani al tavolo. Guardandolo fisso. Sul viso aveva un’espressione che non gli aveva mai visto. Se la definizione fosse stata possibile, Jeremy avrebbe detto che era pallido.
«Un grosso problema.»
Quella conferma accese una luce d’allarme nella testa di Jeremy.
«Che succede?»
Ron fece un cenno con il capo verso la porta.
«Forse è meglio che vieni a vedere di persona.»
Senza attendere risposta si girò e si avviò verso l’uscita. Jeremy lo seguì, a metà fra il sorpreso e il preoccupato. Era abbastanza raro vedere il suo vice interdetto di fronte a un’emergenza, quale che fosse.
In strada, camminarono uno di fianco all’altro. Mentre si avvicinavano al cantiere, vide che gli uomini erano usciti dall’area cintata, un gruppo eterogeneo di giubbetti da lavoro e caschi colorati.
Senza accorgersene, affrettò il passo.
Quando arrivarono all’entrata, gli operai fecero largo in silenzio al loro passaggio. Sembrava la scena di un vecchio film, uno di quelli in cui una carrellata mostra volti muti e senza speranza davanti alla galleria di una miniera dove un crollo improvviso ha imprigionato dei minatori all’interno.
Ma cosa diavolo sta succedendo?
Non persero tempo a indossare l’elmetto, come la regola del cantiere prescriveva. Jeremy seguì Ronald che aveva piegato a destra.
Costeggiarono la staccionata, di fianco ai resti di un muro ancora in piedi e poco dopo si trovarono a scendere per una scala che conduceva al vecchio seminterrato ormai quasi del tutto a cielo aperto. Appena di sotto, il suo vice lo guidò verso la parte opposta dello scavo. L’unico muro ancora parzialmente in piedi era quello più robusto che i due edifici avevano in comune e che era in via di demolizione.
Uno dietro all’altro arrivarono all’angolo di sinistra, quello più lontano dalla scala. Ronald si fermò e si spostò lasciando la vista libera, con un movimento a sipario che ebbe un involontario effetto coreografico.
Jeremy si sentì di colpo rabbrividire. Un conato gli scosse lo stomaco e fu contento di aver mangiato solo dell’insalata.
Il lavoro di smantellamento aveva rivelato un’intercapedine. Da una breccia, aperta dal martello pneumatico, sporco di tempo e di polvere, sporgeva il braccio di un cadavere. Il viso, ridotto quasi a un teschio, era appoggiato a quello che restava della spalla e pareva guardare verso l’esterno con l’amara desolazione di chi è riuscito troppo tardi a ritrovare l’aria e la luce.
Vivien Light parcheggiò la sua Volvo XC60, spense il motore e rimase un attimo in attesa che il mondo intorno a lei la raggiungesse. Per tutto il viaggio di ritorno da Cresskill aveva avuto la sensazione di essere sfalsata, di muoversi in una esclusiva dimensione parallela, dove lei era più veloce rispetto a tutto il resto. Come se lasciasse dietro di sé una scia composta da frammenti di passato, rapide frazioni e rifrazioni di tempo colorato, visibili come la coda di una cometa dalle auto, dalle case e dalle persone che animavano gli schermi dei finestrini.
Le succedeva ogni volta che saliva a trovare sua sorella.
Ogni viaggio di andata era una speranza, immotivata ma proprio per questo ancora più forte e ancora più deludente, nel ritrovarla uguale a sempre e come sempre bella. Sembrava che per una assurda compensazione i mesi e gli anni non avessero effetto sul suo viso. Solo i suoi occhi erano una macchia azzurra spalancata nel vuoto su cui era affacciata e che la sua malattia continuava lenta a scalare.
Per questo il ritorno era una specie di salto nell’iperspazio, che la faceva riemergere in un posto che l’attendeva al centro della realtà.
Senza civetteria, girò lo specchietto retrovisore verso di lei. Per rivedersi normale, per riconoscersi. Le apparve il viso di una ragazza che qualcuno talvolta aveva definito bella e che qualcun altro aveva sfiorato come se non esistesse. Il gradimento, come sempre succede, era puntualmente invertito rispetto ai suoi interessi.
Era bruna, con i capelli tagliati corti, sorrideva raramente, non incrociava mai le braccia e di tanto in tanto si trovava nella necessità di un contatto fisico con le persone. Nei suoi occhi chiari sembrava esserci una perenne traccia di severità. E nel cruscotto della sua auto c’era una Glock 23 calibro 40 S&W.
Se fosse stata una donna normale, forse il suo approccio quotidiano all’esistenza sarebbe stato diverso. E anche il suo aspetto, forse. Ma i capelli corti erano per impedire che qualcuno avesse modo di afferrarla durante un corpo a corpo, l’espressione severa rappresentava una distanza da mantenere, incrociare le braccia poteva significare insicurezza, toccare una persona serviva a trasmettere un senso di protezione e instaurare un rapporto di confidenza necessario per farla aprire e confidare. E la pistola l’aveva perché era il detective Vivien Light, in forza al 13° Distretto del New York Police Department, sulla 21sima Strada. L’ingresso del suo posto di lavoro le stava alle spalle e aspettava solo che lei scendesse dalla macchina e facesse quei pochi passi che l’avrebbero di nuovo trasformata da una donna in pena in un poliziotto.
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