Giorgio Faletti - Io sono Dio

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Non c’è morbosità apparente dietro le azioni del serial killer che tiene in scacco la città di New York. Non sceglie le vittime seguendo complicati percorsi mentali. Non le guarda negli occhi a una a una mentre muoiono, anche perché non avrebbe abbastanza occhi per farlo. Una giovane detective che nasconde i propri drammi personali dietro a una solida immagine e un fotoreporter con un passato discutibile da farsi perdonare sono l’unica speranza di poter fermare uno psicopatico che nemmeno rivendica le proprie azioni. Un uomo che sta compiendo una vendetta terribile per un dolore che affonda le radici in una delle più grandi tragedie americane. Un uomo che dice di essere dio.

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«Che cosa vuoi? Soldi? Non ho molto in casa, ma in banca…»

Il vice interruppe per una volta il suo capo, con una voce resa stridula dalla paura.

«Anche io ne ho. Quasi ventimila dollari. Te li darò tutti.»

Che ci fanno due bravi ragazzi americani in mezzo a queste risaie?

Mentre continuava a versare addosso ai due il liquido della tanica, gli fece piacere pensare che le loro lacrime non fossero causate solo dai vapori della benzina. Parlò con il tono rassicurante che un giorno qualcuno gli aveva insegnato.

Non preoccuparti, caporale. Ora sarai curato…

«Già. Forse possiamo metterci d’accordo.»

Un barlume di speranza arrivò a confortare il viso e le parole dello sceriffo.

«Certo. Domani mattina ci accompagni in banca e ti prendi un sacco di soldi.»

«Sì, potremmo fare così…»

La voce che concedeva l’illusione sparì di colpo.

«Ma non lo faremo.»

Con il residuo di benzina contenuto nel fusto segnò sul pavimento una striscia che arrivava fino alla porta. Mise la mano in tasca e ne estrasse uno Zippo. Un odore nauseabondo si aggiunse a quello pungente che già riempiva la stanza. Farland si era liberato nei calzoni.

«No, ti prego, non farlo, non farlo per l’amor di…»

«Chiudi quella bocca di merda!»

Westlake aveva interrotto quell’inutile piagnucolio. Recuperò un poco di orgoglio con la forza dell’odio e della curiosità.

«Chi sei, bastardo?»

Il ragazzo che era stato un soldato lo guardò un istante in silenzio.

Gli aerei arriveranno di là…

Poi disse il suo nome.

Lo sceriffo sgranò gli occhi.

«Non è possibile. Tu sei morto.»

Fece scattare l’accendino. Gli occhi terrorizzati dei due uomini erano fissi sulla fiamma. Sorrise e per una volta fu contento che il suo sorriso fosse una smorfia.

«No, figli di puttana. Voi siete morti.»

Con un gesto plateale, aprì la mano più del dovuto e lasciò cadere lo Zippo a terra. Non sapeva quanto sarebbe durata per i due uomini la caduta dell’accendino. Ma sapeva bene quanto poteva essere lungo quel breve tragitto.

Niente tuono, per loro.

Solo il rumore metallico dello Zippo che batteva sul pavimento. Poi un luminoso sbuffo caldo e subito dopo una lingua di fiamma che avanzava danzando fino a inghiottirli come un anticipo dell’inferno che li attendeva.

Rimase a sentirli urlare e a vederli agitarsi e bruciare finché nella stanza non si sparse l’odore della carne ustionata. Lo respirò a pieni polmoni, godendo del fatto che questa volta la carne non era la sua.

Poi aprì la porta e uscì in strada. Cominciò a camminare lasciandosi la casa alle spalle, sentendo le grida accompagnarlo come una benedizione mentre si allontanava.

Poco dopo, quando le grida cessarono, seppe che la prigionia dello sceriffo Duane Westlake e del suo vice Will Farland era finita.

TROPPI ANNI DOPO

CAPITOLO 7

Jeremy Cortese guardò la BMW scura che si allontanava con il desiderio segreto di vederla esplodere. Aveva la certezza che, a parte l’autista, delle persone che c’erano all’interno il mondo non avrebbe sentito la minima mancanza.

«Andate a fare in culo, idioti.»

Con questo commento a fare da navigatore satellitare, lasciò la macchina a perdersi nel traffico e rientrò in una delle due baracche del cantiere. In realtà erano due scatole in lamiera montate su ruote e allineate allo steccato che delimitava l’area dei lavori.

Resistette alla tentazione di accendere una sigaretta.

La riunione tecnica appena conclusa lo aveva indisposto e aveva aumentato il malumore che si stava trascinando addosso dall’inizio della giornata, anche se non ne era la sola causa.

La sera prima era stato al Madison Square Garden a vedere i Knicks perdere malamente contro i Dallas Mavericks. Ne era uscito con un senso di amarezza che lo portava ogni volta a chiedersi il perché della sua ostinazione nel frequentare quel tempio dello sport.

L’aggregazione, la festa, la passione comune da tempo avevano smesso di appartenergli. Che la sua squadra vincesse o perdesse, si ritrovava a casa sempre con lo stesso frusto pensiero.

E solo.

Andare a caccia di ricordi non è mai un bell’affare. Qualunque cosa trovi sulla tua strada, rimane in ogni caso un nulla di fatto. Quelli belli non li puoi più catturare e quelli brutti non li puoi uccidere. E ogni respiro sembrava fatto d’aria malsana, quella che si ferma in gola e lascia un cattivo sapore in bocca.

Tuttavia, ogni volta ci tornava, nutrendo quell’istinto a farsi del male che ogni essere umano, in misura maggiore o minore, porta dentro di sé.

Più volte, durante la partita, aveva lasciato correre lo sguardo sulla gradinata intorno a lui, fino a perdere a poco a poco l’interesse per quello che succedeva sul campo dove si agitavano quei ragazzi con le loro divise colorate.

Con una malinconica vaschetta di popcorn in mano, aveva visto padri e figli esultare per una schiacciata di Irons o a una tripla di Jones e gridare in coro con il resto dei tifosi, scandendo le sillabe della parola «Difesa! Difesa! Difesa!» quando la squadra avversaria attaccava.

Un tempo lo aveva fatto anche lui, quando andava a vedere le partite con i suoi figli e sentiva di rappresentare qualcosa nella loro vita. Ma quella si era rivelata un’illusione, mentre la verità era che loro rappresentavano tutto nella sua.

Quando uno dei Knicks ne aveva messo dentro una da tre, anche lui si era alzato, esultando per inerzia insieme a una folla di perfetti sconosciuti e approfittando di quel pretesto per ricacciare dentro qualcosa che stava salendo verso i suoi occhi.

Poi era tornato a sedersi. Alla sua destra c’era un posto vuoto e alla sua sinistra un ragazzo e una ragazza si guardavano e parevano chiedersi perché stavano lì invece di essere in un letto qualunque in una casa qualunque a farsi del bene.

Quando andava al Madison con i suoi figli, si sedeva sempre in mezzo a loro. John, il più piccolo, di solito si metteva alla sua destra e controllava con lo stesso interesse il gioco e il va e vieni dei venditori di bibite, zucchero filato e tutta una serie di altre cibarie da spalto. Jeremy lo aveva paragonato spesso a una fornace che poteva bruciare hot dog e popcorn come una vecchia locomotiva a vapore bruciava carbone. Più di una volta aveva pensato che quel ragazzino non avesse alcun interesse verso la pallacanestro e che il solo piacere nell’andare allo stadio fosse rappresentato dalla manica larga che in quel frangente suo padre mostrava.

Sam, il più grande, quello che assomigliava di più a lui sia fisicamente che caratterialmente, quello che presto lo avrebbe superato in altezza, era invece rapito dalle fasi del gioco. Senza che ne avessero mai parlato, sapeva che il suo sogno sarebbe stato quello di diventare un giorno una stella dell’NBA. Purtroppo Jeremy era convinto che quello sarebbe rimasto un sogno e nulla più. Sam aveva ereditato la sua ossatura grossa e una corporatura che nel tempo avrebbe avuto la tendenza ad allargarsi più che ad allungarsi, anche se faceva parte della squadra della scuola e quando giocavano insieme sotto il canestro dietro casa lo batteva regolarmente.

Lo mortificava addirittura. E ogni volta il suo orgoglio di genitore rendeva Jeremy felice di subire un’umiliazione come quella.

Poi era successo quello che era successo. In realtà non provava sensi di colpa e non aveva colpe da addossare.

Era semplicemente iniziata la demolizione.

Lui e Jenny, sua moglie, si erano ritrovati a girare per casa parlando sempre di meno e discutendo sempre di più. Poi i litigi erano finiti ed era rimasto il silenzio. Senza una ragione vera, erano diventati due estranei. A quel punto la demolizione era conclusa e loro non avevano trovato la forza di mettersi a ricostruire.

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