Giorgio Faletti - Io sono Dio

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Non c’è morbosità apparente dietro le azioni del serial killer che tiene in scacco la città di New York. Non sceglie le vittime seguendo complicati percorsi mentali. Non le guarda negli occhi a una a una mentre muoiono, anche perché non avrebbe abbastanza occhi per farlo. Una giovane detective che nasconde i propri drammi personali dietro a una solida immagine e un fotoreporter con un passato discutibile da farsi perdonare sono l’unica speranza di poter fermare uno psicopatico che nemmeno rivendica le proprie azioni. Un uomo che sta compiendo una vendetta terribile per un dolore che affonda le radici in una delle più grandi tragedie americane. Un uomo che dice di essere dio.

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Uscì sulla 42sima e piegò subito a destra e poi ancora a destra, sulla Vanderbilt. C’era un tratto poco trafficato e quello era il posto giusto per controllare se il tipo con la giacca militare lo seguiva veramente oppure no.

Rientrò nel Terminal dall’ingresso laterale, approfittando dell’occasione per gettare uno sguardo distratto alla sua destra. Non vide girare l’angolo nessuno che potesse assomigliare alla persona in questione. Ma ancora non significava nulla. Se quello era un tipo sveglio, sapeva come fare per seguire qualcuno senza farsene accorgere. Esattamente come lui conosceva il modo per seminare qualcuno che lo stava pedinando. Si chiese di nuovo come mai il tipo non avesse avvertito i poliziotti. Se si era accorto subito del furto e gli era andato dietro per occuparsi personalmente di recuperare la borsa, questo poteva avere due significati.

Primo: correva il rischio che fosse un tipo pericoloso. Secondo: nella borsa ci poteva essere qualcosa di valore ma che era meglio non finisse sotto gli occhi della Polizia. E nell’ipotesi che questo secondo punto si fosse rivelato esatto, cresceva parecchio l’interesse di Ziggy per il contenuto. Ma nello stesso tempo il tipo diventava molto pericoloso.

Il suo presentimento luminoso si stava girando a poco a poco verso un cielo meno sereno. Scese al livello inferiore affollato di ristoranti etnici e gente che a ogni ora beveva e mangiava, dopo l’arrivo o prima della partenza. L’enorme sala era piena di insegne, colori, odori di cibo e un senso di fretta. E quest’ultima era quella che lo coinvolgeva di più, anche se si stava imponendo di camminare con passo normale.

Si trovò dall’altra parte e mentre saliva la scalinata di nuovo girò lo sguardo per controllare la strada dietro a sé. Nessuna persona sospetta.

Iniziò a rilassarsi. Forse era stata solo un’impressione. Forse iniziava a diventare troppo vecchio per quel lavoro.

Seguì le indicazioni e rientrò nella metropolitana. Si diresse verso la stazione della linea viola, quella che portava in alto, nel Queens. Aspettò l’arrivo di un treno e seguì il flusso di passeggeri che salivano in vettura.

Una precauzione dovuta. Alla luce del ragionamento di poco prima, l’uomo con la giacca verde, ammesso che lo stesse seguendo davvero, non avrebbe mai tentato nulla contro di lui in un posto affollato. Attese con aria indifferente fino a quando la solita voce annunciò che le porte stavano per chiudersi.

Solo allora, con uno scatto, tornò sulla banchina, come un passeggero che di colpo si rende conto di avere sbagliato vettura. Si lasciò alle spalle lo sferragliare del treno in partenza e si mosse di nuovo verso la linea verde che scendeva a Downtown per poi proseguire fino a Brooklyn.

Fece il viaggio in più tappe, aspettando a ogni fermata il convoglio successivo, continuando con aria indifferente a far vagare lo sguardo intorno a lui. Anonimo fra gente scazzata e anonima, con a tratti quelle macchie di colore umano che a New York facevano da termine di paragone. Ammesso che qualcuno avesse tempo e voglia di farne.

Quando decise che tutto era tranquillo, dopo l’ultima fermata trovò un posto a sedere. Si mise comodo e attese, la borsa in grembo, vincendo la curiosità di aprirla e di scoprire cosa c’era dentro. Meglio a casa, dove avrebbe potuto esaminare tutto con calma, senza fretta.

Ziggy Stardust sapeva aspettare.

Lo aveva fatto per tutta la vita, fin da quando era ragazzo e aveva iniziato ad arrabattarsi in mille modi per unire il pranzo con la cena. Aveva continuato in seguito, senza cadere nell’errore marchiano dell’avidità.

Accontentandosi, ma con l’incrollabile certezza che un giorno tutto sarebbe cambiato, di colpo. La sua vita, la sua casa, il suo nome.

Addio Ziggy Stardust, bentornato signor Zbigniew Malone.

Cambiò ancora una linea prima di arrivare a una stazione nei paraggi di casa sua. Abitava a Brooklyn, nel quartiere dove c’era la maggior concentrazione di haitiani e dove addirittura le scritte di alcuni ristoranti erano ancora in francese. Un mondo multietnico, con donne dal culo enorme e voce acuta e ragazzi dal passo strascicato e il berretto con la visiera girata da una parte. Al confine con quella zona il mondo ordinato e composto del quartiere ebreo, villette con prati ben curati e Mercedes nel vialetto d’ingresso. Persone silenziose, che si muovevano come ombre scure, i visi seri sotto i loro cappelli neri. Ziggy, ogni volta che li vedeva, aveva l’impressione che pregassero anche quando contavano il denaro.

Però a lui andava bene così. In attesa del giorno in cui avrebbe potuto permettersi di dire adesso basta e scegliere.

Sul muro della casa dove abitava, quello senza finestre che dava sulla strada, qualcuno aveva dipinto un murale. L’artista non era granché, ma quei colori, in un posto così stinto e slavato, gli avevano sempre messo allegria. Superò l’ingresso e scese i gradini che portavano verso il seminterrato che era casa sua. Un’unica stanza con un minuscolo bagno, mobili dozzinali e consumati e l’odore di cucina esotica che scendeva dai piani superiori. Il letto sfatto era appoggiato contro la parete di fronte, sotto la finestra vicina al soffitto che portava in casa la poca luce che arrivava dall’esterno. Tutto sembrava far parte di un tempo addietro, anche il tocco di modernità del televisore ad alta definizione, del pc e della stampante All-in-one, sui quali era posato un velo di polvere.

L’unica nota strana, inusuale, era una libreria alla parete di sinistra, piena di volumi perfettamente ordinati e disposti in ordine alfabetico. Altri erano sparsi per la casa. Addirittura una pila di libri faceva da tavolino da notte sulla parte destra del letto.

Ziggy appoggiò la borsa sul tavolo ingombro di vecchie riviste e si tolse la giacca, buttandola su una poltrona. Prese la borsa e andò a sedersi sul letto. La aprì e iniziò a svuotarla e ad appoggiare sul lenzuolo il suo contenuto. C’erano due quotidiani, il «New York Times» e «Usa Today», una scatola di plastica gialla e blu che si rivelò essere un mini-kit di attrezzi da lavoro, un rotolo di filo di rame e uno di nastro adesivo grigio, quello che usano gli elettricisti. Poi tirò fuori quello che tendeva la borsa e dava il maggior peso. Un album portafoto con la copertina di pelle marrone e fogli di carta ruvida dello stesso colore, pieni di vecchie immagini in bianco e nero, gente che non conosceva in posti che non conosceva. Tutte foto piuttosto datate. Dall’abbigliamento, a spanne avrebbe detto che si trattava degli anni Settanta. Scorse qualche pagina.

Un’immagine attrasse la sua attenzione. La tolse dalle linguette adesive che la fissavano alla carta e rimase qualche istante a fissarla. Un ragazzo con i capelli lunghi e sulle labbra un sorriso che non riusciva a salire fino ai suoi occhi, aveva in braccio un grosso gatto nero. Lo scatto, in modo del tutto casuale, era riuscito a catturare una strana appartenenza reciproca, come se quei due esseri viventi, nelle rispettive specie, fossero uno il riflesso dell’altro.

La fece scivolare nel taschino della camicia. Continuò nella sua esplorazione del contenuto della borsa. Estrasse un oggetto di plastica nero, di forma rettangolare, leggermente più lungo e più stretto di un pacchetto di sigarette, fermato a metà da un giro di nastro per evitare che si aprisse. A una estremità c’era una serie di pulsanti di diverso colore.

Ziggy rimase un attimo a guardarlo, interdetto. Sembrava un telecomando artigianale. Rudimentale forse, ma l’impressione era quella.

Lo appoggiò di fianco alle altre cose e tirò fuori dalla borsa l’ultimo oggetto che conteneva. Era una grossa busta marrone, un poco spiegazzata, con scritto un nome e un indirizzo già in parte sbiaditi dall’usura. Dalle dimensioni si sarebbe detto che era servita per spedire il volume con le foto.

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