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Jeff Lindsay: Il nostro caro Dexter

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Jeff Lindsay Il nostro caro Dexter
  • Название:
    Il nostro caro Dexter
  • Автор:
  • Издательство:
    Sonzogno
  • Жанр:
  • Год:
    2007
  • Город:
    Venezia
  • Язык:
    Итальянский
  • ISBN:
    978-88-454-1382-7
  • Рейтинг книги:
    5 / 5
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Il nostro caro Dexter: краткое содержание, описание и аннотация

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Collaboratore della scientifica di Miami, oltre che uomo affascinante e spiritoso, Dexter sente continuamente l’istinto irrefrenabile a uccidere che sfoga soltanto su chi, a suo parere, se lo merita: assassini, pedofili, stupratori. Finora è giunto al quarantesimo omicidio senza destare alcun sospetto, però adesso un collega sta iniziando a fiutare qualcosa. Per non farsi smascherare, Dexter decide di recitare per un po’ la parte del bravo poliziotto e del fidanzato perfetto, dedicando molto tempo alla nuova fiamma e ai due bambini di lei. Per quanto tempo riuscirà a tenere a freno il suo alter ego? Mentre cerca di depistare il collega, viene coinvolto dalla sorellastra Debbie, agente della Omicidi, nel caso di un sadico serial killer che uccide secondo rituali affini ai suoi, mutilando con precisione chirurgica le proprie vittime, lasciandone alcune vive e spaventosamente traumatizzate. L’appetito di Dexter viene stuzzicato, ma deve essere tenuto sotto controllo finché c’è in giro la sua nemesi, il tenace Doakes, che però all’improvviso scompare. È ora di mettersi sulle tracce di quel misterioso chirurgo e di far agire il Passeggero, a meno che non sia la preda ora a braccare il cacciatore…

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«Certo, lo sapevo», feci. «E tu lo sai che questa casa ha anche un ingresso principale? Stavolta senza pavoni di guardia.»

Lui batté di nuovo le palpebre. «Dovrei spaventarmi?» domandò.

«Be’, non si sa mai chi potrebbe entrare di colpo senza essere invitato.»

Il dottor Danco sollevò impercettibilmente l’angolo sinistro della bocca. «Se il tuo amico al tavolo operatorio è uno di loro», considerò, «posso stare tranquillo, non trovi?» Dovevo ammettere che aveva ragione. I giocatori della prima formazione non erano stati indimenticabili; che cosa aveva da temere dalla panchina? Se soltanto fossi stato un po’ meno intontito da non so quali droghe mi aveva somministrato, quasi certamente avrei detto qualcosa di più intelligente, ma, a essere sinceri, ero ancora avvolto da una specie di nube chimica.

«Spero che tu non voglia farmi credere che stanno arrivando i soccorsi, vero?» osservò.

Mi stavo chiedendo la stessa cosa, ma non mi sembrava molto astuto dirglielo. «Pensala come vuoi», risposi invece, sperando di essere sufficientemente sibillino da guadagnare tempo. Nel frattempo maledicevo la lentezza dei miei processi mentali, di solito fulminei.

«D’accordo, allora», replicò. «Penso che tu sia venuto qui da solo. Anche se sono curioso di sapere perché.»

«Volevo studiare la tua tecnica», spiegai.

«Oh, bene. Sono lieto di mostrartela… di prima mano.» Fece di nuovo balenare quel suo sorrisetto e aggiunse: «Poi passeremo ai piedi». Attese un momento, forse per vedere se ridevo a quell’ironico gioco di parole. Mi dispiacque davvero deluderlo, ma forse mi avrebbe divertito più tardi, se ne fossi uscito vivo.

Danco mi diede un buffetto sul braccio e si piegò verso di me. «Devi dirmi il tuo nome, lo sai. E niente scherzi.»

Me lo vidi chiamarmi per nome, mentre ero legato al tavolo con le cinghie e non fu un’immagine allegra.

«Mi dirai come ti chiami?» domandò.

«Pollicino», risposi.

Danco mi guardò, gli occhi dilatati dietro le spesse lenti. Poi allungò la mano verso la mia tasca dei pantaloni e tirò fuori il portafogli. Lo aprì e ne estrasse la mia patente. «Oh! Dunque sei tu Dexter. Congratulazioni per il tuo fidanzamento.» Lasciò cadere il portafogli accanto a me e mi diede un buffetto. «Guarda e impara, perché molto presto farò le stesse cose su di te.»

«Per te sarà un onore», replicai.

Danco si rabbuiò. «Dovresti avere più paura», osservò. «Perché sei così calmo?» Fece una smorfia di disapprovazione. «Interessante. La prossima volta aumenterò il dosaggio.» Poi si alzò e se ne andò.

Ero disteso in un angolo buio vicino a un secchio e a una scopa e lo vedevo affaccendarsi in cucina. Si fece una tazza di caffè cubano liofilizzato e ci versò dentro una valanga di zucchero. Poi si piazzò al centro della stanza e fissò il tavolo, pensieroso.

« ’Nahma’ , implorò la cosa sul tavolo che una volta era stata il sergente Doakes. « Nahana. Nahma. » Ovviamente gli era stata tagliata la lingua… chiara metafora rivolta a colui che Danco riteneva l’avesse denunciato.

«Sì, lo so», fece il dottore. «Ma non ne hai ancora indovinata una.» Mentre lo diceva sembrava quasi che sorridesse, anche se il suo volto non sembrava fatto per rivelare altri sentimenti al di là di un attento interesse. Ma bastava a scatenare in Doakes una crisi di urla e ripetuti tentativi di liberarsi dalle cinghie. Non funzionò granché e non sembrò preoccupare il dottor Danco, che si allontanò sorseggiando il suo caffè e canticchiando fuori tempo Tito Puente. Mentre Doakes si agitava, mi accorsi che, oltre alle mani e alla lingua, gli mancava anche il piede destro. Chutsky aveva detto che la gamba dal ginocchio in giù gli era stata tagliata tutta in una volta. Di sicuro il Dottore voleva che Doakes durasse un po’ di più. E quando sarebbe stato il mio turno… da dove avrebbe cominciato?

Pezzo dopo pezzo, la nebbia stava svanendo dal mio cervello. Mi domandai per quanto tempo fossi rimasto incosciente. Non mi parve un argomento di cui discutere col dottore.

Il dosaggio , aveva detto. Quando mi ero svegliato, aveva in mano una siringa e si era stupito che non fossi tanto spaventato… Certo. Che splendida idea, iniettare nei pazienti una specie di farmaco psicotropo che aumentasse la loro sensazione di terrore e impotenza. Desiderai sapere come si facesse. Perché non avevo una preparazione medica? Ma, naturalmente, era un po’ troppo tardi per preoccuparmene. E in ogni caso sembrava che il dosaggio fosse perfetto per Doakes.

«Bene, Albert», disse con simpatia il dottore al sergente, gustando il suo caffè, «vuoi provare a indovinare?»

« Nahana! Nah! »

«Non credo sia giusto», rispose l’altro. «O magari, se tu avessi la lingua, potrebbe darsi di sì. In ogni caso», continuò, piegandosi sul bordo del tavolo e facendo un segno su un pezzo di carta, come se stesse cancellando delle voci. «È una parola abbastanza lunga», suggerì. «Dieci lettere. D’altronde, devi accettare la buona e la cattiva sorte, non trovi?» Posò la matita e prese una sega e, mentre Doakes cercava di liberarsi dalle cinghie agitandosi come un pazzo, Danco gli amputò il piede sinistro, proprio sopra la caviglia. Fece il tutto in modo preciso e pulito, poi mise l’arto accanto alla testa di Doakes e allungò la mano verso i suoi attrezzi, da cui trasse un grande saldatore. Lo applicò alla nuova ferita e si levò una nube di vapore sfrigolante: stava cauterizzando il moncherino per limitare al minimo la fuoriuscita di sangue.

«Eccoti servito», disse.

Doakes emise un suono strozzato e svenne, mentre un odore di carne bruciata si diffondeva per la stanza. Se gli andava male, sarebbe rimasto incosciente ancora per poco.

Io, per fortuna, riguadagnavo coscienza un po’ alla volta. Mentre le droghe sparate dalla pistola a freccette del dottore mi gocciolavano fuori dal cervello, cominciò ad affiorare una specie di luce fangosa.

Ah, il ricordo! Non è una cosa meravigliosa? Anche nei momenti peggiori, i nostri ricordi sono lì per rallegrarci. Io, per esempio, ero disteso, in grado soltanto di assistere alle cose terribili che capitavano a Doakes e consapevole che presto sarebbe stato il mio turno. Eppure, mi restavano i ricordi.

Ora mi veniva in mente quello che aveva detto Chutsky quando l’avevo liberato. «Quando mi ha portato lì», aveva spiegato, «diceva ’Sette’ e ’Indovina’.» All’inizio mi era sembrato tutto piuttosto strano, mi ero domandato se Chutsky non se lo fosse immaginato sotto l’effetto delle droghe.

Ma avevo appena sentito il dottore dire le stesse cose a Doakes: «Vuoi provare a indovinare?» seguito da «Dieci lettere». E poi aveva fatto un segno sul pezzo di carta appiccicato al tavolo.

C’era stato un pezzo di carta attaccato al tavolo di ogni vittima che avevamo ritrovato, ogni volta con sopra una parola dalle lettere cancellate singolarmente. ONORE. LEALTÀ. In senso ironico, ovvio: Danco ricordava ai suoi compagni di un tempo le virtù che non avevano osservato consegnandolo ai cubani. Povero Burdett, l’uomo mandato da Washington che avevamo trovato nella casa in costruzione a Miami Shores. Danco non si era sforzato molto. Una parolina veloce di cinque lettere: RETRO. E le braccia, le gambe e la testa erano state rapidamente tagliate e staccate dal corpo. R-E-T-R-O. Braccio, gamba, gamba, braccio, testa.

Possibile? Sapevo che il mio Passeggero Oscuro era dotato di senso dell’umorismo, ma era un po’ più cupo di questo… che era giocoso, bizzarro, addirittura sciocco.

Un po’ come la targa con scritto SCEGLI LA VITA. E come tutto quello che caratterizzava il comportamento del dottore.

Sembrava troppo improbabile, eppure…

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