Passai un’ora a progettare la serata e a mangiare un’enorme pizza con le acciughe e, mentre la luna piena mormorava alla finestra, cominciai a scalpitare. Sentivo le gelide dita del plenilunio che mi scuotevano, mi solleticavano la spina dorsale e mi incitavano a tuffarmi nella notte e a stendere i muscoli del predatore che per troppo tempo era rimasto in letargo.
E perché no? Non c’era niente di male a sgattaiolare fuori in quella ridente serata e dare uno sguardo in giro. Uscire furtivo, guardare senza essere visto, percorrere a passi felpati il vialetto di Reiker, annusando l’aria… sarebbe stato utile ma anche divertente. Lo Scout Deviato Dexter doveva Essere Preparato. Inoltre, era venerdì notte. Era probabile che Reiker fosse uscito per qualche impegno sociale… un giro al negozio di giocattoli, per esempio. In sua assenza, sarei potuto entrare in casa a dare un’occhiata.
Dunque indossai il mio miglior completo scuro da predatore e presi la via più breve per Tigertail Avenue, passando attraverso la Main Highway e il Grove, finché non raggiunsi la modesta abitazione di Reiker. Si trovava in un quartiere costituito da casette in cemento e non sembrava diversa dalle altre, separata dalla strada da un vialetto. Lì c’era parcheggiata la sua auto, una piccola Kia rossa che mi accese una speranza. Era rossa, proprio come gli stivali, segno che ero sulla pista giusta.
Passai due volte davanti alla casa. La seconda, le luci dell’abitacolo della Kia erano accese e feci appena in tempo a vederlo in faccia mentre saliva in macchina. Non era un viso molto particolare: magro, quasi privo di mento e in parte coperto da una lunga frangia e da spessi occhiali. Non riuscii a vedere che cosa aveva ai piedi, ma a giudicare dal resto non era escluso che indossasse stivali da cowboy per sembrare un po’ più alto. Reiker chiuse la portiera e io feci un giro intorno all’isolato.
Quando ripassai, la sua macchina non c’era più. Parcheggiai in una traversa qualche isolato più in là e tornai indietro, assumendo la mia andatura notturna. Il vicino aveva tutte le luci spente, così tagliai dal cortile. Dietro alla casa di Reiker c’era una piccola dépendance; il Passeggero Oscuro sussurrò al mio orecchio interno: studio. In effetti era un posto perfetto per aprire un’attività come quella del fotografo e anche quello adatto a trovare fotografie compromettenti. Dato che il Passeggero su queste cose raramente sbaglia, scassinai la serratura ed entrai.
Le finestre erano sbarrate dall’interno con delle assi, ma aprendo la porta si intravedeva nel buio l’attrezzatura di una camera oscura. Il Passeggero aveva ragione. Chiusi la porta e accesi l’interruttore. Una cupa luce rossa, appena sufficiente per vedere, inondò la stanza. Vicino a un piccolo lavandino c’erano i soliti vassoi e le boccette con i reagenti, mentre a sinistra troneggiava un bel computer con l’attrezzatura digitale. Sulla parete opposta c’era un mobiletto fatto a schedario con quattro cassetti. Decisi di cominciare da lì.
Dopo dieci minuti che sfogliavo foto e negativi, le immagini più compromettenti che trovai erano qualche dozzina di ritratti di neonati nudi sdraiati su un tappeto di pelliccia di volpe bianca. Anche chi ritiene Pat Robertson troppo liberale le avrebbe definite «carine». A quanto sembrava, non c’erano scomparti segreti nel mobiletto e nessun altro posto intuitivo in cui nascondere le foto.
Non avevo molto tempo; se Reiker era soltanto uscito a comprare il latte sotto casa, era fatta. Poteva tornare in qualunque momento e decidere di rovistare nel suo materiale per osservare teneramente i deliziosi piccoli folletti che aveva immortalato su pellicola. Mi spostai nella zona computer.
Accanto al monitor c’era un alto porta CD; passai in rassegna una alla volta le custodie. Dopo un gruppo di driver per installare programmi e altri dischi con su scritto a mano GREENFIELD o LOPEZ, lo trovai.
Era una specie di portagioielli rosa acceso. Davanti, a lettere chiare, c’era scritto NAMBLA 9/04.
NAMBLA poteva anche essere un nome spagnolo poco comune. Ma stava anche per North American Man/Boy Love Association, un simpatico quanto vago gruppo di supporto per aiutare i pedofili a mantenere una positiva immagine di loro stessi, sostenendo che ciò che fanno è perfettamente naturale. Be’, certo che lo è… come il cannibalismo e lo stupro, davvero. Non si dovrebbe.
Presi il CD, spensi la luce e scivolai nella notte.
Quando tornai al mio appartamento, ci misi pochi minuti a scoprire che il disco era un supporto in vendita, forse da portare a una specie di raduno della NAMBLA e da offrire a una lista selezionata di orchi discriminati. Sopra, le foto erano organizzate in quelle che vengono dette «gallerie di schizzi», una serie di miniature simili a quelle che amavano sfogliare gli sporcaccioni nell’era vittoriana. Le foto erano scurite nei punti strategici in modo che si potessero immaginare i particolari anche senza vederli.
E… oh, sì: molti scatti erano versioni tagliate e modificate da mano esperta delle immagini che avevo visto sulla barca di MacGregor. Dunque anche se non avevo trovato gli stivali da cowboy, avevo materiale sufficiente per rispettare il Codice di Harry. Reiker era balzato in cima alla classifica.
Andai a letto sorridente e col cuore leggero, pensando allegramente a quello che io e lui avremmo potuto fare insieme l’indomani notte.
Il giorno dopo, sabato, mi svegliai sul tardi e uscii a fare jogging nel mio quartiere. Dopo una doccia e un’abbondante colazione, andai a comprare l’essenziale: un nuovo rotolo di nastro adesivo e un coltello da cucina con la lama sottile come un rasoio, giusto l’indispensabile. Poi, dato che il Passeggero Oscuro si stava agitando, mi fermai a una tavola calda per uno spuntino. Mangiai una bistecca da quasi mezzo chilo, ovviamente ben cotta, senza una goccia di sangue.
Poi passai di nuovo davanti alla casa di Reiker, per rivedere il posto alla luce del giorno. Il fotografo in persona stava tagliando l’erba. Rallentai e gettai uno sguardo casuale; ahimè, portava un paio di vecchie scarpe da ginnastica, niente stivali rossi. Era a torso nudo e, oltre a essere ossuto, sembrava pallido e flaccido. Tranquillo, presto ci avrei pensato io a ridargli un po’ di colore.
Fu una giornata molto soddisfacente e produttiva, quella del mio Giorno Prima. Me ne stavo seduto buono buono nel mio appartamento, tutto preso da virtuosi pensieri, quando squillò il telefono.
«Buona sera», dissi.
«Puoi venire qui?» fece Deborah. «Abbiamo del lavoro da finire.»
«Che lavoro?»
«Non fare il cretino», disse. «Vieni», e riattaccò. Non era soltanto irritante, di più. Primo, non mi risultava che ci fosse nessun lavoro da finire; secondo, non mi ritenevo un cretino — un mostro, questo sì, ma nell’insieme un mostro piuttosto piacevole e dotato di buone maniere. E oltre tutto, quel suo modo di riattaccare, che sottintendeva semplicemente che avrei tremato e obbedito. Che coraggio! Nessuno mi avrebbe fatto tremare, anche se era mia sorella ed era dotata di un pugno di ferro.
Comunque obbedii. Ci misi più del solito a raggiungere il Mutiny: era sabato pomeriggio e nel Grove le strade si riempivano di sfaccendati. Mi destreggiai lentamente nel traffico, col desiderio di schiacciare l’acceleratore a tavoletta e fare strage di quell’orda barbarica. Deborah mi aveva tolto il buonumore.
E quando bussai alla porta della suite, al Mutiny, non contribuì a migliorarlo: aprì con quella sua espressione da poliziotto-in-servizio-con-problemi, che la faceva somigliare a un odiosissimo pesce. «Entra», ordinò.
«Sì, padrona», dissi.
Chutsky era sul divano. Continuava a non assomigliare a un colono inglese (forse per colpa dell’assenza delle sopracciglia), ma complessivamente aveva l’aspetto di uno che aveva scelto di vivere. Sembrava che il programma di recupero di Deborah stesse funzionando. Alle sue spalle, appoggiata al muro, c’era una stampella e lui stava bevendo del caffè. Un vassoio di dolci era poggiato sul tavolino di fronte. «Ehi, amico», salutò agitando il moncherino. «Prendi una sedia.»
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