Presi una sedia in stile coloniale inglese e mi sedetti, dopo aver sgraffignato un paio di pasticcini. Chutsky mi guardò sul punto di obiettare, ma davvero, era proprio il minimo che potevano fare per me. Dopotutto, per salvarlo avevo affrontato alligatori affamati e l’agguato di un pavone, e ora ero lì a sacrificare il mio sabato per chissà quale ingrato lavoro. Mi meritavo un’intera torta.
«Okay», fece Chutsky. «Dobbiamo capire dove si nasconde Henker e dobbiamo farlo in fretta.»
«Chi?» chiesi. «Vuoi dire il dottor Danco?»
«Già, si chiama così. Henker», rispose lui. «Martin Henker.»
« E noi dobbiamo trovarlo? » domandai, con un orribile presentimento. Voglio dire, perché chiamare proprio me e dire noi ?
Chutsky sbuffò leggermente, come risposta a quella che credeva una mia battuta. «Sì, esatto», disse. «Dove pensi che potrebbe essere, amico?»
«Per la verità, non ci penso proprio», replicai.
«Dexter», intervenne Deborah in tono di avvertimento.
Chutsky aggrottò le sopracciglia. Ne risultò una strana espressione, dato che non le aveva. «Che cosa vuoi dire?» chiese.
«Voglio dire… non vedo perché dovrebbe essere un mio problema. Non vedo perché io o comunque noi dobbiamo trovarlo. Lui ha avuto quello che voleva… perché non lasciare che finisca e se ne torni a casa?»
«Sta scherzando?» chiese Chutsky a Deborah, e se solo avesse avuto le sopracciglia, le avrebbe sollevate.
«Doakes non gli piace», spiegò Deborah.
«D’accordo, ma ascolta, Doakes è uno dei nostri», mi disse Chutsky.
«Non uno dei miei», replicai.
Chutsky scosse la testa. «Okay, questo è un problema tuo. In ogni caso dobbiamo trovare quell’uomo. È anche una questione politica e se non lo fermiamo è un casino.»
«Va bene», convenni. «Comunque non capisco perché debba essere un mio problema.» Mi parve una domanda molto sensata, anche se dalla sua reazione sembrava che volessi far esplodere una bomba in una scuola elementare.
«Gesù!» esclamò, e scosse la testa come per farsi beffe di me. «Sei proprio un bel tipo, amico.»
«Dexter», intervenne Deborah. «Guardaci.» Li guardai, Deb col suo gesso e Chutsky con la sua coppia di moncherini. A essere sinceri, non facevano molta paura. «Ci serve il tuo aiuto», disse.
«Debs, davvero…»
«Per favore, Dexter», implorò mia sorella, sapendo bene che quando me lo chiedeva così non riuscivo a dire di no.
«Avanti, Debs», cercai di farla ragionare. «Tu hai bisogno di un uomo d’azione, qualcuno che butti giù la porta e faccia irruzione sparando a volontà. Io sono solo un timido topo di laboratorio.»
Deborah attraversò la stanza e mi si parò davanti, a pochi centimetri di distanza. «Io so che cosa sei, Dexter», mormorò. «Ti ricordi? E so che sei in grado di partecipare.» Mi posò una mano sulla spalla e parlò ancora più piano, quasi sussurrò. «Kyle ne ha bisogno, Dex. Ha bisogno di catturare Danco. O non si sentirà mai più uomo. Per me è importante. Per favore, Dexter.»
Dopotutto, che cosa puoi fare quando passano alle armi pesanti? Se non fare appello a tutta la tua buona volontà e sventolare elegantemente la bandiera bianca?
«D’accordo, Debs», borbottai.
La libertà è un bene fragile ed effimero, non trovate?
Per quanto riluttante, avevo dato la mia parola che sarei stato d’aiuto, così il povero Devoto Dexter si lanciò immediatamente sul problema con tutte le risorse del suo strabiliante ingegno. Ma la triste verità era che il mio cervello era fuori servizio: anche se inserivo con precisione gli indizi, non ne usciva nulla.
Forse per ottenere prestazioni così elevate necessitava di maggior carburante, perciò blandii Deborah perché si facesse mandare altri pasticcini. Mentre lei era al telefono con l’addetto al servizio in camera, Chutsky mi rivolse un sorriso sfuggente, quasi mellifluo e disse: «Allora ci proviamo, amico?»
Me l’aveva chiesto in quel modo tanto carino… E d’altronde, qualcosa dovevo fare mentre aspettavo i dolci, così accettai.
La perdita degli arti aveva privato Chutsky di qualsiasi inibizione psicologica. Invece di essere un po’ più insicuro, si era fatto più aperto e cordiale e sembrava desideroso di condividere informazioni, cosa che sarebbe stata impensabile per un Chutsky dotato di tutti e quattro gli arti e di un costoso paio di occhiali da sole. Quindi, con il desiderio di fare bella figura e di sapere più particolari possibili, approfittai del suo buonumore per sapere da lui i nomi della squadra del Salvador.
Chutsky sedeva col taccuino d’ordinanza in precario equilibrio sul ginocchio, e lo teneva fermo con il polso mentre scarabocchiava i nomi con la sua unica mano, la destra. «Manny Borges, ce l’hai presente», disse.
«La prima vittima», risposi.
«Ah-hah», fece Chutsky senza alzare la testa. Scrisse il nome e poi ci tirò sopra una riga. «E poi c’era Frank Aubrey…» Si incupì, scrisse anche il suo nome e lo cancellò, storcendo la bocca. «Gli manca Oscar Acosta. Dio sa dov’è finito adesso.» Lo segnò ugualmente e vicino ci mise un punto interrogativo. «Wendell Ingraham. Vive a North Shore Drive, Miami Beach.» Mentre scriveva, gli cadde a terra il taccuino; tentò di afferrarlo al volo, ma lo mancò. Rimase un attimo a fissarlo, poi si piegò e lo raccolse. Una goccia di sudore gli scivolò sul cranio pelato, quindi a terra. «Fottute medicine», brontolò. «Mi stordiscono.»
«Wendell Ingraham», dissi.
«Giusto. Giusto.» Scarabocchiò il resto del nome e senza fermarsi continuò con: «Andy Lyle. Adesso vende automobili, su a Davie». E in una furibonda esplosione di energia proseguì e scrisse trionfante l’ultimo nome. «Due altri ragazzi morti, uno ancora disperso, ed ecco tutta la squadra.»
«Nessuno di questi sa che Danco è in città?»
Lui scosse la testa. Gli colò un’altra goccia di sudore che mi mancò per poco. «Stiamo mantenendo il segreto sulla questione. Non c’è bisogno che si sappia in giro.»
«Loro non hanno bisogno di sapere che qualcuno vuole ridurli in cuscini urlanti?»
«No, non ce l’hanno», dichiarò, stringendo la mascella come se stesse per dire un’altra frase da duro; forse voleva proporre di eliminarli tirando lo sciacquone. Poi mi guardò e ci ripensò.
«Non potremmo almeno controllare chi manca all’appello?» proposi, senza sperarci davvero.
Chutsky scosse di nuovo la testa prima ancora che finissi di parlare. Gli colarono altre due gocce di sudore, una a destra e una a sinistra. «No, assolutamente no. Questa gente è sempre in ascolto. Se qualcuno comincia a chiedere di loro, lo vengono a sapere. E non posso rischiare che scappino. Come ha fatto Oscar.»
«Allora come facciamo a trovare il dottor Danco?»
«È questo che ti tocca scoprire», disse.
«E la casa di Monte Pattumiera?» domandai speranzoso. «Quella che avevi controllato col taccuino.»
«Debbie ha piazzato un’autopattuglia. Ci si è trasferita una famiglia.» spiegò. «No, noi puntiamo tutto su di te, amico. Ti verrà in mente qualcosa.»
Debs ci raggiunse prima che trovassi qualcosa di significativo da dire, ma in verità mi stupì molto il comportamento che Chutsky aveva nei confronti dei suoi vecchi compagni. Non sarebbe stato più carino avvisarli di prepararsi a fuggire o quanto meno di stare all’erta? Di sicuro non pretendo di essere un fulgido esempio di virtù, ma se un chirurgo squilibrato facesse la posta, per esempio, a Vince Masuoka, mi piace pensare che troverei il modo di infilare qualche riferimento durante la nostra chiacchierata nella pausa caffè. Lo zucchero, per favore. A proposito, c’è un medico maniaco che vuole tagliarti gambe e braccia. Gradisci del latte?
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