Jeff Lindsay - Il nostro caro Dexter

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Il nostro caro Dexter: краткое содержание, описание и аннотация

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Collaboratore della scientifica di Miami, oltre che uomo affascinante e spiritoso, Dexter sente continuamente l’istinto irrefrenabile a uccidere che sfoga soltanto su chi, a suo parere, se lo merita: assassini, pedofili, stupratori. Finora è giunto al quarantesimo omicidio senza destare alcun sospetto, però adesso un collega sta iniziando a fiutare qualcosa. Per non farsi smascherare, Dexter decide di recitare per un po’ la parte del bravo poliziotto e del fidanzato perfetto, dedicando molto tempo alla nuova fiamma e ai due bambini di lei. Per quanto tempo riuscirà a tenere a freno il suo alter ego? Mentre cerca di depistare il collega, viene coinvolto dalla sorellastra Debbie, agente della Omicidi, nel caso di un sadico serial killer che uccide secondo rituali affini ai suoi, mutilando con precisione chirurgica le proprie vittime, lasciandone alcune vive e spaventosamente traumatizzate. L’appetito di Dexter viene stuzzicato, ma deve essere tenuto sotto controllo finché c’è in giro la sua nemesi, il tenace Doakes, che però all’improvviso scompare. È ora di mettersi sulle tracce di quel misterioso chirurgo e di far agire il Passeggero, a meno che non sia la preda ora a braccare il cacciatore…

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Naturalmente, poteva anche essere che Ingraham stesse facendo fare lavori in casa e che gli operai avessero deciso di restare lì finché non li avessero finiti. Eppure la cosa non mi convinceva, e non convinceva neppure il Passeggero Oscuro. Presi il cellulare e chiamai Deborah.

«Credo di aver trovato qualcosa», le dissi quando rispose.

«Come mai ci hai messo così tanto?» chiese.

«Credo che il dottor Danco stia occupando la casa di Ingraham a Miami Beach.»

Fece una piccola pausa in cui mi sembrò quasi di vederla aggrottare le sopracciglia. «Come fai a dirlo?»

La prospettiva di spiegarle che avevo semplicemente tirato a indovinare non mi entusiasmava granché, così mi limitai a dire: «È una lunga storia, sorellina. Ma penso che sia vero».

«Lo pensi», disse. «Però non ne sei certo.»

«Lo sarò tra pochi minuti», risposi. «Ho parcheggiato dietro l’angolo di casa Ingraham e davanti c’è un furgone che in questo quartiere sembra vagamente fuori posto.»

«Non ti muovere», mi intimò. «Ti richiamo.» Riattaccò e mi lasciò a sorvegliare la casa. Ero in una posizione scomodissima per osservare e farlo mi sarebbe costato un serio torcicollo. Così girai la macchina e mi misi lungo la strada rivolto verso la curva, dove la casa mi fissava beffarda e intanto… eccola lì. Il suo faccione faceva capolino tra gli alberi e illuminava con i suoi fiochi raggi lo squallido paesaggio. La luna, quell’eterno faro sghignazzante. Eccola.

Sentivo le sue gelide dita tentatrici che mi incitavano e mi provocavano e mi spingevano a commettere azioni sciocche e bellissime, ed era da così tanto tempo che non avvertivo questo duplice richiamo che mi rimbombava con forza nella testa e mi attraversava la spina dorsale e, a dire il vero, che male c’era se davo una controllata prima che Deborah richiamasse? Non avrei fatto stupidaggini, ovvio, sarei solo uscito dalla macchina per fare un giro in strada, una casuale passeggiata al chiaro di luna in una strada tranquilla. Poi, se per un insieme di coincidenze mi fosse capitato di fare qualche giochino con il dottore…

Notai con un certo fastidio che mentre scendevo dall’auto il mio respiro si faceva sempre più irregolare. Vergogna, Dexter. Dov’è finito il tuo leggendario autocontrollo? Forse protestava per essere stato trattenuto troppo a lungo e proprio questa scissione mi faceva sentire ancora più bramoso, ma non doveva succedere. Respirai a fondo per rilassarmi e scesi in strada: un mostro qualunque a spasso dietro a un’improvvisata clinica per vivisezioni. Salve, signore, è la notte ideale per tagliare una gamba, non le pare?

Man mano che mi avvicinavo alla villetta sentivo Quel Qualcosa che cresceva sempre più grande e forte dentro di me, mentre le vecchie dita gelide spingevano per farlo uscire. Ero di fuoco e di ghiaccio, la luna e la morte mi davano forza, e quanto più mi avvicinavo alla casa tanto più crescevano i bisbigli dentro di me, mentre dall’abitazione mi giungevano i suoni attutiti di una musica, forse un coro di ritmi e sassofoni di Tito Puente, e non occorreva che i crescenti sussurri mi dicessero che avevo ragione, che era proprio qui che il dottore aveva allestito la sua clinica.

Era qui, ed era al lavoro.

E adesso, che cosa potevo fare? Naturalmente la cosa più saggia sarebbe stata tornare alla macchina e aspettare la chiamata di Deborah… ma questa notte non c’era tempo per la saggezza, con la luna che sogghignava melodiosa così bassa nel cielo e il ghiaccio che mi gelava le vene e mi incitava a proseguire.

Dunque, non appena superata la tana del dottore, scivolai nell’oscurità della casa accanto e attraversai circospetto il cortile, finché non scorsi il retro dell’abitazione di Ingraham. Una forte luce proveniva dalla finestra posteriore e io mi avvicinai furtivamente, sempre di più, nascosto dall’ombra di un albero. Qualche altro passo felpato e sarei quasi riuscito a sbirciare dentro la finestra. Mi accostai ancora un po’, appena fuori dalla pozza di luce sul selciato.

In quella posizione potevo vedere all’interno, da un certo angolo fino al soffitto della stanza. Ecco lo specchio che Danco amava tanto usare che rifletteva metà del tavolo…

… e poco più di metà del sergente Doakes.

Era legato stretto, immobile, e la sua testa rasata di fresco era bloccata sul tavolo. Non riuscii a distinguere molti dettagli, ma a quanto sembrava le sue mani erano mozzate fino ai polsi. Le mani per prime? Davvero interessante: si trattava di un approccio completamente differente da quello usato con Chutsky. Come faceva Danco a stabilire cos’era meglio per ogni paziente?

Quell’uomo e la sua opera mi intrigavano sempre di più; c’era uno strano humour che animava la faccenda e, per quanto possa sembrare stupido, volevo conoscere un po’ meglio il suo modo di lavorare. Mi avvicinai ancora.

La musica si fermò e io con lei, poi quando il ritmo del mambo riprese, sentii una tosse metallica dietro di me e qualcosa che mi dava un colpetto sulla spalla, mi pungeva e pizzicava; mi voltai e vidi un ometto dai grandi occhiali che mi fissava. Stringeva una pistola che sembrava una di quelle che sparano proiettili di vernice; ebbi appena il tempo di indignarmi visto che era puntata contro di me, prima che qualcuno mi sfilasse le ossa dalle gambe. Poi scivolai nei prati psichedelici e lunari dove tutto è oscuro e immerso nei sogni.

29

Stavo allegramente dissezionando un tipo davvero cattivo che avevo legato stretto con il nastro adesivo e bloccato su un tavolo, ma non so come il coltello era di gomma e si limitava a ondeggiare da una parte all’altra. Allora afferrai al suo posto un’enorme sega per ossa e la rivolsi verso l’alligatore sdraiato sul tavolo, ma non sentii nessun godimento, dolore piuttosto, e mi accorsi che mi stavo tagliando via le braccia. I polsi mi bruciavano e si divincolavano, eppure non riuscivo a smettere di segare. Mi tagliai un’arteria e un orribile fiotto zampillò ovunque e mi accecò con una nebbia rossastra e io precipitai, senza fermarmi, nelle vuote tenebre del mio ego dove sagome orribili mi sospingevano urlanti finché non caddi nell’orribile pozzanghera rossa sul pavimento dove due lune spettrali mi fissarono truci dicendo: Apri gli occhi, sei sveglio…

E tutto tornò a fuoco e le due lune spettrali non erano altro che le spesse lenti incorniciate dalla grande montatura nera e attaccate alla faccia di un ometto con i baffi, snello e muscoloso, chino su di me con una siringa in mano.

«Il dottor Danco, suppongo?»

Non credevo di averlo pronunciato a voce alta, ma lui annuì e disse: «Già, mi chiamano così. E tu chi sei?» Il suo accento era vagamente forzato, come se dovesse riflettere prima di pronunciare ogni parola. C’era una traccia di cubano, ma non sembrava che lo spagnolo fosse la sua lingua d’origine. Per qualche motivo la voce mi mise di cattivo umore, come se fosse Dexter-Repellente. Ma nel profondo del mio cervello da lucertola un vecchio dinosauro sollevò il muso e rispose con un ruggito, sicché non mi mostrai umiliato di fronte a lui come stavo per fare. Tentai di scuotere la testa, ma non so perché non ci riuscii.

«Non provare a muoverti», mi avvertì. «Non ce la farai. Comunque stai tranquillo, riuscirai a vedere tutto quello che faccio al tuo amico sul tavolo. E presto toccherà a te. E allora potrai vederti nello specchio.» Batté le palpebre e il tono diventò frivolo. «Straordinaria invenzione, lo specchio. Lo sapevi che se da fuori casa qualcuno lo guarda, tu che stai dentro lo vedi riflesso?»

Sembrava un maestro elementare che spiegava uno scherzo a uno scolaro a cui era affezionato, ma che era troppo stupido per capirlo. E io lo ero talmente da non riuscire a dare un senso alle sue parole, perché mi ero mosso senza pensare ad altro se non: Wow, interessante. Mi ero lasciato trascinare dai miei impulsi amplificati dalla luna e dalla mia curiosità e il dottore mi aveva sorpreso mentre lo spiavo. Tuttavia stava gongolando e la cosa mi infastidì, così mi sentii costretto a dire qualcosa, anche di stupido.

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