Jeff Lindsay - Il nostro caro Dexter

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Il nostro caro Dexter: краткое содержание, описание и аннотация

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Collaboratore della scientifica di Miami, oltre che uomo affascinante e spiritoso, Dexter sente continuamente l’istinto irrefrenabile a uccidere che sfoga soltanto su chi, a suo parere, se lo merita: assassini, pedofili, stupratori. Finora è giunto al quarantesimo omicidio senza destare alcun sospetto, però adesso un collega sta iniziando a fiutare qualcosa. Per non farsi smascherare, Dexter decide di recitare per un po’ la parte del bravo poliziotto e del fidanzato perfetto, dedicando molto tempo alla nuova fiamma e ai due bambini di lei. Per quanto tempo riuscirà a tenere a freno il suo alter ego? Mentre cerca di depistare il collega, viene coinvolto dalla sorellastra Debbie, agente della Omicidi, nel caso di un sadico serial killer che uccide secondo rituali affini ai suoi, mutilando con precisione chirurgica le proprie vittime, lasciandone alcune vive e spaventosamente traumatizzate. L’appetito di Dexter viene stuzzicato, ma deve essere tenuto sotto controllo finché c’è in giro la sua nemesi, il tenace Doakes, che però all’improvviso scompare. È ora di mettersi sulle tracce di quel misterioso chirurgo e di far agire il Passeggero, a meno che non sia la preda ora a braccare il cacciatore…

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La rete terminava ad angolo retto. C’era un tratto vuoto, non più di una quindicina di metri, e quindi un’altra fila di alberi. Mi nascosi dietro all’ultimo, per poter osservare bene la casa, ma, non appena mi fermai e appoggiai la mano sul tronco, qualcosa volò rumorosamente in mezzo ai rami, sopra di me. Un urlo forte e squillante squarciò la notte. Feci un balzo all’indietro mentre quella roba attraversava le foglie e si schiantava al suolo.

L’essere mi si parò davanti, continuando a urlare con quel verso da tromba stonata. Era un uccello, più grande di un tacchino, e dal modo in cui fischiava e strideva sembrava che ce l’avesse con me. Fece un passo indietro, impettito, trascinando la lunga coda a terra, e io mi accorsi che era un pavone. Io non piaccio agli animali, ma questo sembrava aver sviluppato nei miei confronti un odio eccessivo e violento. Immagino non avesse capito che ero più grosso e pericoloso di lui. Sembrava fermamente intenzionato a mangiarmi o a cacciarmi via. Dato che volevo che quell’orribile fracasso terminasse al più presto, gli feci la cortesia di una dignitosa ritirata e mi affrettai verso il ponte costeggiando la rete. Quando mi sentii di nuovo al sicuro, immerso nelle tenebre, tornai a osservare la casa.

La musica era finita e la luce spenta.

Restai nell’ombra, immobile, per qualche minuto. Non successe nulla, a parte che il pavone smise di gridare e, dopo avermi rivolto un ultimo meschino borbottio, scomparve tra gli alberi. Tornarono i rumori notturni, i ronzii e i brusii degli insetti uniti ai grugniti e all’acqua smossa dagli alligatori.

Niente più Tito Puente.

Sapevo che il dottor Danco guardava e aspettava proprio come me, e che ognuno di noi attendeva che l’altro facesse la prima mossa, ma io potevo resistere più a lungo. Lui non aveva la minima idea di che cosa potesse esserci fuori, nella notte… per quello che ne sapeva, poteva anche esserci una squadra SWAT. Invece io ero certo che fosse da solo. Sapevo dov’era, mentre Danco non poteva capire se ci fosse qualcuno sul tetto, né se fosse circondato. Dunque gli toccava agire per primo e c’erano solo due possibilità. O avrebbe attaccato, oppure…

All’improvviso sentii il rombo di un motore proveniente dal lato opposto della casa. Mi irrigidii istintivamente, mentre l’idroscivolante si allontanava dalla banchina. In meno di un minuto era scomparso dietro la curva, nel buio, e con lui il dottor Danco.

25

Rimasi dov’ero per qualche minuto a osservare la casa, per prudenza. Di fatto, non avevo visto il guidatore dell’idroscivolante e c’era il rischio che il dottore si annidasse ancora dentro, per vedere che cosa sarebbe successo. Inoltre, a essere onesti, non desideravo neanche che mi balzasse addosso un altro pollo narcisista con velleità predatorie.

Ma dopo qualche istante in cui non successe nulla, capii che dovevo entrare in casa a dare un’occhiata. E così, facendo il giro largo intorno all’albero dov’era appollaiato il malefico uccello, mi avvicinai alla costruzione.

Dentro era scuro, ma rumoroso. Quando fui davanti alla porta a zanzariera di fronte al parcheggio, sentii come un battito leggero che proveniva dall’interno, seguito da un ritmico brontolio intervallato da gemiti. Non era il tipico rumore di chi stava per tendere un agguato mortale. Piuttosto, assomigliava a quello di una persona legata che tenta di fuggire. Il dottor Danco era scappato così in fretta da lasciarsi dietro il sergente Doakes?

Ancora una volta il mio cervello fu percorso da un’inebriante tentazione. Il sergente Doakes, la mia nemesi, legato, impacchettato e consegnato nel luogo giusto. Con tutti gli strumenti e l’attrezzatura che desideravo, nessuno intorno per chilometri… e dopo avrei avuto soltanto da dire: «Mi spiace, sono arrivato troppo tardi. Guardate come quel cattivone del dottor Danco ha conciato il povero vecchio sergente Doakes». La prospettiva era eccitante e pensarci mi faceva venire le vertigini. Certo, era solo un’idea, ma non avrei mai fatto niente del genere, no? Non sul serio, intendo. Dexter? Pronto? Perché stai sbavando, vecchio mio?

No di certo, non io. Perché ero io il fulgido faro nel deserto spirituale del sud della Florida. Quasi sempre. Ero un Oscuro Cavaliere retto e onesto. Sir Dexter il Puro alla riscossa. O quantomeno, a ciò che le assomigliava, considerato tutto quanto. Spinsi la zanzariera ed entrai.

Per prudenza, mi appiattii all’istante contro il muro e cercai a tastoni l’interruttore della luce. Ne trovai uno al suo posto, sulla destra. Lo schiacciai.

Come il primo covo delle iniquità di Danco, anche questo non era molto arredato. Di nuovo, il luogo era caratterizzato da un grande tavolo nel centro della stanza. Uno specchio era appeso alla parete opposta. Sulla destra, un’apertura priva di porta dava su una specie di cucina, mentre a sinistra c’era una stanza chiusa, forse il bagno o la camera da letto. Proprio davanti a me c’era un altro ingresso con zanzariera che dava all’esterno. Forse era di lì che il dottor Danco si era dato alla fuga.

E dal lato opposto del tavolo, che batteva ancora più forte, c’era una cosa con indosso una tuta arancione pallido. Sembrava anche piuttosto umana, persino dall’altro lato della stanza. «Di qua, oh, per favore, aiutami, aiutami», supplicava.

Io gli andai vicino e mi inginocchiai.

Braccia e gambe erano legate con il nastro adesivo, il vero discrimine tra i mostri dilettanti e quelli più scafati. Mentre tagliavo il nastro, lo osservavo e udivo i suoi lamenti, anche se non li ascoltavo veramente. Faceva: «Oh, Dio sia ringraziato, oh, per favore, mio Dio, liberami, amico, fai presto, fai presto, Dio mio. Gesù Cristo, perché ci hai messo così tanto, Gesù, grazie, sapevo che saresti venuto» e cose del genere. Il suo cranio era completamente rasato, sopracciglia comprese. Ma quel mento marcato e virile e quelle cicatrici sul viso non mentivano: era Kyle Chutsky.

O, in ogni caso, gran parte di lui.

Quando tolsi il nastro adesivo e Chutsky fu in grado di assumere la posizione seduta, fu chiaro che aveva perso il braccio sinistro dal gomito in giù e la gamba destra a partire dal ginocchio. I monconi erano fasciati da bende bianche e pulite da cui non usciva nulla. Un altro ottimo lavoro, ma non credo che Chutsky apprezzasse la cura che Danco aveva mostrato nell’asportargli il braccio e la gamba. Non si capiva quanto funzionasse ancora la mente di Chutsky, anche se con quel suo continuo e lagnoso brontolio non gli avrei mai affidato i comandi di un aereo di linea.

«Gesù, amico mio», disse. «Cristo. Grazie a Dio sei arrivato», poi mi mise la testa sulla spalla e pianse. Dato che ultimamente avevo avuto un’esperienza simile, sapevo come comportarmi. Gli diedi una pacca sulla schiena e dissi: «Su, su». Fu anche più imbarazzante di quella volta con Deborah, perché il moncone del suo braccio sinistro cominciò a sbattermi contro e mi rese più difficile simulare partecipazione emotiva.

La crisi di pianto di Chutsky durò solo pochi istanti e quando finalmente si staccò da me, tentando di stare diritto, la mia bella camicia hawaiana era fradicia. Tirò abbondantemente su col naso, un po’ troppo tardi per la mia camicia. «Dov’è Debbie?» chiese.

«Si è rotta la clavicola», risposi. «È in ospedale.»

«Oh», fece e tirò di nuovo su col naso, un lungo suono bagnato che sembrò rimbombargli dentro. Si guardò rapido alle spalle e tentò di tirarsi in piedi. «È meglio che ce ne andiamo da qui. Potrebbe tornare.»

Non avevo pensato che Danco avrebbe potuto fare ritorno, comunque era possibile. È la tattica tipica di ogni predatore che si rispetti: scappare e poi tornare indietro per scoprire chi c’è sulle sue tracce. Se il dottor Danco l’avesse fatto, avrebbe trovato un paio di comodi bersagli. «D’accordo», dissi. «Fammi dare un’occhiata veloce qui intorno.»

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