In cerca di una conferma, o quantomeno per placare il mio senso di colpa, chiamai ancora una volta il numero segreto di Doakes. La voce mi diede le stesse coordinate e riattaccò: ovunque fossero, erano ancora lì, al fondo di questa stradina scura e fangosa.
Apparentemente non avevo altra scelta. Il dovere chiamava e Dexter doveva rispondere. Sterzai e imboccai il sentiero.
A detta del GPS, ancora otto chilometri di viaggio e poi mi sarei trovato davanti a ciò che mi aspettava. Abbassai i fari e guidai lentamente, scrutando i dintorni. Questo mi lasciò molto tempo per pensare, il che non sempre è un bene. Mi chiedevo che cosa mi aspettasse al fondo della strada e come avrei dovuto comportarmi. E, benché non fosse il momento migliore per pensarci, mi resi conto che se anche vi avessi trovato il dottor Danco, non avrei proprio saputo che cosa fare.
«Vieni a prendermi», aveva detto Doakes. Facile, per chi non stava attraversando le Everglades in macchina in una notte buia armato di solo taccuino. Per di più sembrava che il dottor Danco non si fosse fatto molti problemi con le altre sue prede, nonostante fossero gente dura e ben armata. Come poteva il povero, indifeso Docile Dexter sperare di spuntarla contro colui che aveva così repentinamente domato il Possente Doakes?
E che cosa avrei fatto se mi avesse catturato? Sarei stato bravo come patata ululante? Non credo proprio. Sarei impazzito? Molte autorità avrebbero potuto affermare che pazzo lo sono già. O forse lo sarei diventato comunque, condannato a vagare borbottando fuori dal mio cervello per le lande dell’eterno ululato? Oppure, per colpa della mia indole, sarei rimasto cosciente? Io, la mia preziosa persona, legata a un tavolo a dare un saggio sulle tecniche di smembramento? La risposta mi avrebbe dato di certo importanti informazioni sulla mia natura, ma decisi che non volevo venirne a conoscenza così brutalmente. Il solo pensiero riusciva quasi a farmi provare un’emozione, e non delle più gradevoli.
La notte si stringeva intorno a me e la cosa non mi rallegrava. Dexter è un ragazzo di città, abituato a luci forti che lasciano grandi ombre. Più andavo avanti, più la strada diventava scura e il mio viaggio assumeva i contorni di un’impresa suicida. Era chiaro: per questa operazione ci voleva un plotone di marine, non un topo del laboratorio analisi, omicida a tempo perso. Che cosa credevo di essere? Il Prode Dexter, pronto a salvare il mondo al galoppo? Che cosa speravo di fare? In questo caso, che altro ti resta, se non metterti a pregare?
Io non prego, ovvio. Come potrebbe, uno come me? E poi perché Lui dovrebbe darmi retta? E se esisteva Qualcosa, qualunque cosa fosse, che cosa lo tratteneva dal ridere di me o infilzarmi la gola con un fulmine? Doveva essere consolante credere in una forza superiore ma, ovviamente, per me ne esisteva una sola. E anche se era forte, rapido, intelligente e molto abile a muoversi nella notte, mi sarebbe bastato l’aiuto del Passeggero Oscuro?
Secondo il GPS dovevo essere a circa quattrocento metri dal sergente Doakes, o almeno dal suo cellulare. Vidi un cancello. Era uno di quelli enormi, in alluminio, che nelle fattorie servivano per chiudere dentro le mucche. Quella però non era una fattoria. Un cartello diceva:
ALLEVAMENTO DI ALLIGATORI BLALOCK
VIETATO L’ACCESSO
I TRASGRESSORI SARANNO DIVORATI
Sembrava un posto adatto per un allevamento di alligatori, ma non per questo era il luogo in cui avrei voluto essere. Confesso che, pur avendo vissuto da sempre a Miami, ne so veramente poco degli allevamenti di alligatori. Gli animali vagano liberi per i loro pascoli acquatici o sono chiusi in un recinto? Al momento mi sembrò una domanda fondamentale. Gli alligatori ci vedono al buio? E, di solito, hanno molta fame? Belle domande, tutte molto pertinenti.
Spensi i fari, fermai la macchina e scesi. Nell’improvviso silenzio riuscii a sentire il ticchettio del motore, il ronzio delle zanzare e, in lontananza, una musica proveniente da una cassa gracchiante. Sembrava musica cubana. Forse Tito Puente.
Il dottore era in casa.
Mi avvicinai al cancello. Al di là, la strada proseguiva su un vecchio ponte di legno e poi in un boschetto. Vidi una luce attraverso i rami. Non scorsi alligatori crogiolarsi al plenilunio.
Bene, Dexter, eccoci qua. Che cosa vuoi fare stasera?
In quel momento, il divano di Rita non mi sembrò una prospettiva così malvagia. Soprattutto se l’alternativa era starsene di notte in quel posto desolato. Superato quel cancello mi attendevano un maniaco smembratore, orde di rettili famelici e un uomo che mi toccava salvare anche se mi voleva morto. E in quest’angolo, in calzoncini scuri, ecco l’Impavido Dexter.
Forse era un po’ troppo tardi per domandarmelo… ma perché sempre a me? Sul serio. A me toccava affrontare tutto questo per salvare chi? Il sergente Doakes? Pronto? Forse c’era qualcosa che non quadrava in quella storia. La mia presenza, per esempio.
In ogni caso ero lì e qualcosa dovevo fare. Mi arrampicai sul cancello, lo scavalcai e mi diressi verso la luce.
Poco per volta ripresero i normali rumori notturni. Almeno, immaginai che potessero ritenersi normali per una foresta selvaggia e inospitale: scatti, brusii, ronzii da parte dei nostri amici insetti e un lugubre lamento che sperai vivamente provenisse da una civetta… piccola, per favore. Qualcosa scosse il cespuglio alla mia destra e poi scese il silenzio. Fortunatamente per me, anziché agitarmi o avere paura come fanno gli umani, entrai in modalità «predatore notturno». I suoni divennero lontani, i movimenti intorno a me più lenti, tutti i miei sensi sembrarono tornare a nuova vita. L’oscurità si diradò un po’ e i dettagli si fecero più definiti. Una risatina gelida e silente affiorò lenta alla mia coscienza. Il povero frainteso Dexter si sentiva a disagio fuori dal suo elemento e nella sua testa? Perché non cedere il volante al Passeggero? Lui avrebbe saputo che cosa fare e sarebbe stato pronto a farlo.
Perché no, dopotutto? Al termine del vialetto, oltre il ponte, il dottor Danco ci stava aspettando. Volevo tanto conoscerlo e ora ne avevo l’occasione. Qualunque cosa gli avessi fatto, Harry avrebbe approvato. Anche Doakes avrebbe dovuto ammettere che Danco era una preda legittima… e magari mi avrebbe pure ringraziato. Magnifico: questa volta ero persino autorizzato. E meglio ancora, c’era un che di poetico. Per troppo tempo Doakes aveva intrappolato il mio genio nella bottiglia. E per una sorta di giustizia, il genio usciva fuori proprio ora, al momento del salvataggio. E io l’avrei salvato, il sergente, certo che l’avrei fatto. Poi però…
Be’, ora pensiamo al prima.
Attraversai il ponte di legno. Quando fui a metà, un’asse scricchiolò e per un attimo mi sentii gelare. Non udii altri rumori, oltre a quelli notturni e a Tito Puente che faceva: «Aaaaaahh-yuh!» e tornava alla sua melodia.
Proseguii.
Al di là del ponte la strada si allargava in un parcheggio. A sinistra c’era una recinzione metallica e di fronte una costruzione di un solo piano con una finestra illuminata. Era vecchia e cadente e aveva bisogno di una mano di vernice, comunque credo che il dottor Danco non fosse il tipo che badava alle apparenze. Sulla destra un capanno per polli marciva quieto sul canale, i rami di palma del tetto che penzolavano come brandelli di vecchi vestiti. Un idroscivolante era ormeggiato a un molo fatiscente che si protendeva nel canale.
Strisciai nell’ombra di una fila di alberi e assunsi il portamento duro ed elegante del predatore. Feci il giro del parcheggio muovendomi con prudenza lungo la rete metallica. Qualcosa grugnì e poi cadde in acqua, ma era dall’altra parte della rete così la ignorai e andai avanti. Era il Passeggero Oscuro a guidare e non si sarebbe certo fermato per questo.
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