Jeff Lindsay - Il nostro caro Dexter

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Collaboratore della scientifica di Miami, oltre che uomo affascinante e spiritoso, Dexter sente continuamente l’istinto irrefrenabile a uccidere che sfoga soltanto su chi, a suo parere, se lo merita: assassini, pedofili, stupratori. Finora è giunto al quarantesimo omicidio senza destare alcun sospetto, però adesso un collega sta iniziando a fiutare qualcosa. Per non farsi smascherare, Dexter decide di recitare per un po’ la parte del bravo poliziotto e del fidanzato perfetto, dedicando molto tempo alla nuova fiamma e ai due bambini di lei. Per quanto tempo riuscirà a tenere a freno il suo alter ego? Mentre cerca di depistare il collega, viene coinvolto dalla sorellastra Debbie, agente della Omicidi, nel caso di un sadico serial killer che uccide secondo rituali affini ai suoi, mutilando con precisione chirurgica le proprie vittime, lasciandone alcune vive e spaventosamente traumatizzate. L’appetito di Dexter viene stuzzicato, ma deve essere tenuto sotto controllo finché c’è in giro la sua nemesi, il tenace Doakes, che però all’improvviso scompare. È ora di mettersi sulle tracce di quel misterioso chirurgo e di far agire il Passeggero, a meno che non sia la preda ora a braccare il cacciatore…

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Mi alzai, attraversai con prudenza la massa e scivolai fuori dalla porta. Credevo che il sergente Doakes mi aspettasse intorno alla casa, ma non lo vidi da nessuna parte. Attraversai la strada e guardai nella sua macchina. Era vuota. Andai su e giù per la via ma nulla, neppure lì. Nessuna traccia.

Doakes era scomparso.

24

Ci sono molti aspetti dell’esistenza che non comprenderò mai, e non solo razionalmente. Nel senso che mi manca la capacità di immedesimazione, oltre a quella di provare emozioni. Non la considero una grande perdita, ma ciò fa sì che molti lati della normale esperienza umana trascendano la mia comprensione.

In ogni caso, esiste un sentimento comune alla maggior parte degli individui che io provo intensamente: la tentazione. Non appena vidi la strada vuota davanti alla casa di Vince Masuoka e capii che in qualche modo il dottor Danco aveva preso Doakes, eccola affiorare vertiginosa nel mio intimo, fin quasi a soffocarmi.

Sono libero.

Il pensiero si fece strada dentro di me e mi colpì con la sua elegante e del tutto giustificata semplicità. Andarmene via e basta, ecco la cosa più facile da fare. Lasciare che Doakes si rivedesse con il dottore, denunciare il fatto la mattina dopo e fingere di aver bevuto troppo… Dopotutto era la mia festa di fidanzamento! Non potevo sapere che cosa fosse capitato al buon sergente. Chi non mi avrebbe dato ragione? Di sicuro nessuno alla festa avrebbe potuto affermare con realistica certezza che io non ero stato sempre con loro a guardare lo spogliarello.

Doakes sarebbe scomparso. Spazzato via in un carosello di arti mozzati e di follia, non avrebbe mai più illuminato la mia soglia oscura. Libertà per Dexter, libertà di essere me stesso, non più schiavo dei doveri. Non avevo difficoltà ad abituarmi all’idea.

Allora perché non andarmene? Perché non partire per un discreto viaggetto, destinazione Coconut Grove, dove un certo fotografo di bambini aspettava da troppo tempo di giocare con me? Così semplice, così sicuro… Allora, perché no? Era la notte perfetta per concedermi una deviata digressione con quel degenerato, la luna era quasi piena e lo spicchio mancante dava all’intera vicenda un’atmosfera casuale, quasi informale. La brama sussurrante annuì, si levò in un ritornello insidioso e insistente.

Non mancava nulla. Il momento, il bersaglio, la luna e anche l’alibi. Il desiderio era stato represso da così lungo tempo che mi bastava chiudere gli occhi e lo sentivo scalpitare, smanioso, come se avessi innestato il pilota automatico. E poi riecco il dolce abbandono, i muscoli che si sciolgono per effetto di quella gioia assoluta, le contratture che si rilassano e io che scivolo lieto nel sonno come non capitava da troppo tempo. E al mattino, fresco e riposato, avrei detto a Deborah…

Oh. Deborah. Ecco cos’altro c’era.

Avrei detto a Deborah che avevo approfittato dell’assenza di Doakes per fuggire nel buio in preda al Bisogno e alla Lama, mentre le ultime dita del suo fidanzato rotolavano nella spazzatura. Anche se le ragazze pon pon nel mio inconscio insistevano che avevo ragione, non so come mai pensai che a Debs non sarebbe piaciuto. Sentivo che avrebbe compromesso il rapporto con mia sorella, anche se forse si trattava di un piccolo errore di giudizio. Una come lei non perdonava molto facilmente e, pur essendo incapace di provare vero affetto, volevo che Debs si trovasse relativamente bene con me.

Così ancora una volta mi armai di santa pazienza e di virtuosa rettitudine. Devoto Deferente Dexter. Arriverà , dissi all’altro mio ego. Presto o tardi, l’occasione arriverà. Deve arrivare, non attenderemo all’infinito. Ma questo ha la precedenza. E ci furono delle lamentele, ovvio, perché era da un bel po’ che tenevo il mio ego segregato lì dentro. Ma lo tranquillizzai, sprangai la porta con un finto sorriso e tirai fuori il cellulare.

Feci il numero che mi aveva dato Doakes. Dopo un po’ si sentì un suono, poi più nulla, soltanto un sibilo. Composi il lungo codice di accesso, udii uno scatto e un’impersonale voce femminile disse: «Numero». Le diedi quello del cellulare di Doakes. Ci fu una pausa, poi ricevetti alcune coordinate, che mi affrettai a segnare sul taccuino. La voce tacque, quindi aggiunse: «Direzione ovest, velocità cento chilometri orari». Cadde la linea.

Non ho mai preteso di essere un esperto navigatore, ma sulla mia barca ho un piccolo GPS. Serve a rintracciare le zone ricche di pesci. Così riuscii a inserire le coordinate senza innervosirmi o far esplodere qualcosa. Il GPS di Doakes era un po’ più avanzato del mio e aveva una mappa sullo schermo. Le coordinate si riferivano all’Interstate 75, direzione Alligator Alley, il corridoio sulla costa ovest della Florida.

Fui leggermente sorpreso. Per gran parte del territorio tra Miami e Naples si estende l’Everglades, una palude interrotta da rari brandelli di terra fangosa. È piena di serpenti, alligatori e casinò indiani, non proprio il posto più adatto per smembrare qualcuno in pieno relax.

Ma il GPS non poteva sbagliare e neppure la voce al telefono, suppongo. Se le coordinate non erano corrette, l’idea era stata di Doakes e per lui sarebbe finita comunque. Non avevo scelta. Mi sentii un po’ in colpa nell’abbandonare la festa senza neppure ringraziare il mio ospite, tuttavia salii in macchina e mi diressi verso la I-75.

Dopo pochi minuti raggiunsi l’autostrada, poi proseguii rapidamente a nord. Da quelle parti, poco per volta la città scompare. Si assiste a una furiosa esplosione di case e centri commerciali poco prima del casello per Alligator Alley. Lì accostai e richiamai quel numero. La stessa voce femminile impersonale mi diede altre coordinate e riattaccò. Interpretai il gesto pensando che i due non avessero effettuato ulteriori spostamenti.

Secondo la mappa, il sergente Doakes e il dottor Danco dovevano essersi comodamente installati nel bel mezzo di un’anonima landa acquosa e selvaggia a circa sessantacinque chilometri da lì. Non sapevo del dottor Danco, ma non credevo che Doakes fosse così bravo a tenersi a galla. Dopotutto anche i GPS possono sbagliare. Tuttavia dovevo fare qualcosa, così mi rimisi in strada, pagai il pedaggio e proseguii verso ovest.

In una zona parallela all’area indicata dal GPS, una stradina svoltava sulla destra. Al buio era praticamente invisibile, soprattutto per me che viaggiavo a cento all’ora. Ma non appena la vidi sfrecciarmi accanto, frenai e tornai indietro a dare un’occhiata. Era una strada fangosa, a una sola corsia, che non sembrava portare da nessuna parte. Attraversava un ponte pericolante e poi si lanciava, dritta come una freccia, nell’oscurità delle Everglades. I fari delle auto di passaggio la illuminavano soltanto per una ventina di metri e fin lì non notai nulla di particolare. Nel mezzo, tra due profondi solchi di pneumatici, cresceva una macchia di cespugli che mi arrivavano alle ginocchia. Un folto gruppo di alberi fiancheggiava la strada per poi scomparire nel buio. Quello era tutto.

Pensai di scendere dalla macchina in cerca di qualche indizio, poi mi resi conto della stupidità del gesto. Credevo forse di essere un’abile guida indiana? Non ero in grado di osservare un rametto piegato e dire quanti visi pallidi fossero passati di lì nelle ultime ore. Forse il volonteroso ma inefficiente cervello di Dexter mi aveva scambiato per una specie di Sherlock Holmes, capace di esaminare le tracce delle ruote e dedurre che di lì era passato un gobbo zoppo e mancino dai capelli rossi che fumava un avana strimpellando un ukulele. Non trovai nessun indizio, niente di rilevante. La triste verità era questa: o si doveva andare da quella parte, oppure mi ero fregato la nottata e il sergente Doakes si era fregato per molto più a lungo.

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