Jeff Lindsay - Il nostro caro Dexter

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Il nostro caro Dexter: краткое содержание, описание и аннотация

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Collaboratore della scientifica di Miami, oltre che uomo affascinante e spiritoso, Dexter sente continuamente l’istinto irrefrenabile a uccidere che sfoga soltanto su chi, a suo parere, se lo merita: assassini, pedofili, stupratori. Finora è giunto al quarantesimo omicidio senza destare alcun sospetto, però adesso un collega sta iniziando a fiutare qualcosa. Per non farsi smascherare, Dexter decide di recitare per un po’ la parte del bravo poliziotto e del fidanzato perfetto, dedicando molto tempo alla nuova fiamma e ai due bambini di lei. Per quanto tempo riuscirà a tenere a freno il suo alter ego? Mentre cerca di depistare il collega, viene coinvolto dalla sorellastra Debbie, agente della Omicidi, nel caso di un sadico serial killer che uccide secondo rituali affini ai suoi, mutilando con precisione chirurgica le proprie vittime, lasciandone alcune vive e spaventosamente traumatizzate. L’appetito di Dexter viene stuzzicato, ma deve essere tenuto sotto controllo finché c’è in giro la sua nemesi, il tenace Doakes, che però all’improvviso scompare. È ora di mettersi sulle tracce di quel misterioso chirurgo e di far agire il Passeggero, a meno che non sia la preda ora a braccare il cacciatore…

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Io non piaccio agli animali e ciò dimostra che sono più intelligenti di quanto crediamo. Sembra che intuiscano la mia natura e la disapprovino, spesso esprimendo il loro punto di vista in modo piuttosto mirato. Per questo motivo ero un po’ restio ad avvicinare un cane, specie se così agitato. Comunque varcai la soglia, lentamente, chiamando speranzoso: «Cagnolino!» Per essere sinceri ricordava più un pitbull rabbioso e decerebrato. In ogni caso mi impegno sempre per far buon viso a cattivo gioco, anche con i nostri amici a quattro zampe. Improvvisai una faccia da amante degli animali e mi diressi verso la porta a battenti che conduceva a quella che doveva essere la cucina.

Non appena sfiorai l’uscio, sentii il Passeggero Oscuro agitarsi e grattare piano. Mi fermai. Cosa? domandai. Non ebbi alcuna risposta. Chiusi gli occhi un istante. Nulla; nessun messaggio segreto comparve all’interno delle mie palpebre. Mi strinsi nelle spalle, aprii la porta ed entrai in cucina.

La parte superiore della stanza era dipinta di un giallo scolorito e unto, mentre quella più in basso era ricoperta di piastrelle bianche a righe blu. In un angolo c’era un piccolo frigorifero e sul bancone una piastra per cucinare. Uno scarafaggio lo attraversò per poi tuffarsi dietro al frigorifero. Avevano inchiodato un foglio di compensato contro l’unica finestra della stanza e dal soffitto pendeva una singola lampadina fioca.

Sotto la luce troneggiava un tavolo vecchio e pesante, di quelli con le gambe squadrate e le rifiniture in porcellana bianca. Sulla parete c’era un grande specchio appeso in modo da riflettere ciò che c’era sul tavolo. E attraverso il riflesso, proprio nel centro, si vedeva un… uhm…

Dunque. Suppongo che al principio fosse un essere umano di un qualche tipo, con ogni probabilità un maschio ispanico. In quello stato era molto difficile stabilirlo e la cosa, ammetto, mi inquietò leggermente. Tuttavia, invece di sorprendermi, dovetti ammirare l’abilità e la pulizia del lavoro. Avrebbe fatto l’invidia di un chirurgo, anche se non credo che fosse il tipo di servizio che si può trovare in una clinica privata.

Per esempio, a me non sarebbe mai venuto in mente di tagliare via in quel modo labbra e palpebre. Inoltre, pur vantandomi della mia perizia sul lavoro, non sarei mai stato capace di farlo senza danneggiare gli occhi, che ora roteavano avanti e indietro, impossibilitati a chiudersi o a battere, e tornavano sempre a guardare nello specchio.

È solo un’idea, ma credo che le palpebre fossero state tolte per ultime, molto più tardi della rimozione, oh-così-precisa, del naso e delle orecchie. Non seppi stabilire, comunque, se io l’avrei fatto prima o dopo l’amputazione di braccia, gambe, genitali eccetera. Una serie di scelte difficili, che tuttavia, a prima vista, sembravano effettuate con cognizione di causa ed esperienza da qualcuno che la sapeva lunga. Spesso un lavoro così pulito lo definiamo «chirurgico». Ma qui si trattava di vera e propria alta chirurgia. Non usciva una goccia di sangue, neppure dalla bocca, da cui erano state rimosse le labbra e la lingua, né dai denti. Quell’incredibile meticolosità era ammirevole. Ogni ferita era stata cucita professionalmente; sulle spalle, nel punto dove prima erano attaccate le braccia, era stato applicato un bendaggio bianco e gli altri tagli si erano già rimarginati, come vorresti che capitasse nei migliori ospedali.

Ogni parte del corpo era stata tagliata via, senza esclusione. Restava soltanto un cranio pelato e privo di connotati attaccato a un tronco. Non riuscii a immaginare come fosse stato possibile arrivare fino lì senza che il paziente morisse; era inoltre lungi da me capire perché mai qualcuno volesse farlo. Rivelava una tale efferatezza da farti dubitare della bontà dell’universo. Perdonate se una tale affermazione suona vagamente ipocrita detta dal Deviato Dexter, ma so benissimo quello che sono e non assomiglia a nulla di tutto questo. Io eseguo ciò che il Passeggero Oscuro ritiene opportuno, nei confronti di chi se lo merita, e termino sempre con la morte del soggetto. Sono certo che la cosa sul tavolo avrebbe convenuto con me che non sarebbe stata poi un’idea così malvagia.

Eppure… tutta la cura e meticolosità impiegate per lasciarlo vivo davanti a uno specchio… Sentii un senso di tenebrosa meraviglia vagare dentro di me, come se per la prima volta al Passeggero Oscuro fosse venuto un complesso di inferiorità.

La cosa sul tavolo non sembrava essersi accorta della mia presenza. Continuava a ululare come un cane impazzito, senza sosta, emettendo tremolante la stessa orribile nota.

Sentii Deb arrestarsi alle mie spalle. «Oh, Gesù», mormorò. «Oddio… che cos’è?»

«Non lo so», risposi. «Ma sicuramente non è un cane.»

8

Sentii un leggero spostamento d’aria e guardai alle spalle di Deborah: era arrivato il sergente Doakes. Diede un’occhiata alla stanza quindi il suo sguardo corse sul tavolo. Ammetto di essere stato curioso di assistere alla sua reazione dinanzi a uno spettacolo così estremo. Ne valse la pena. Quando Doakes vide l’oggetto esposto in cucina, vi incollò gli occhi addosso e rimase immobile, come una statua. Dopo un bel po’ gli andò vicino, planando lento come se fosse tenuto da un filo. Ci scivolò accanto ignorando la nostra presenza e si fermò davanti al tavolo.

Restò qualche istante a fissare la cosa. Senza battere ciglio, infilò una mano nel giubbotto ed estrasse la pistola. Lentamente e senza scomporsi mirò all’occhio sbarrato dell’essere che ululava sul tavolo. Fece scattare il cane dell’arma.

«Doakes», fece Deborah con voce rauca, poi si schiarì la gola e ripeté: «Doakes!»

Doakes non rispose né distolse lo sguardo, ma neppure premette il grilletto, il che fu un peccato. In fondo, che ne avremmo fatto di quel bozzolo? Non poteva dirci chi era stato. E avevo l’impressione che il suo periodo di membro utile alla società si fosse concluso. Perché non permettere al sergente di dare libero sfogo alla sua pietà? In seguito io e Deb saremmo stati obbligati, contro la nostra volontà, a riferire l’accaduto: Doakes sarebbe stato licenziato o messo dentro e i miei problemi sarebbero finiti. Mi era sembrata una soluzione davvero pulita, ma chiaramente Deborah non avrebbe mai approvato. Era sempre così pignola e attaccata alle formalità.

«Metti via quell’arma, Doakes», ordinò. L’uomo non si mosse quasi, ma si voltò a guardarla.

«Non c’è altro da fare», replicò lui. «Dammi retta.»

Deborah scosse la testa. «Sai che non puoi», aggiunse. Si fissarono per un po’, poi Doakes mi mise a fuoco. Fu davvero dura per me sostenere lo sguardo senza lasciarmi sfuggire un: «Che cosa aspetti… maledizione!» Ma, non so come, ci riuscii e il sergente alzò in aria la pistola.

Lanciò un’altra occhiata alla cosa, scosse il capo e ritirò l’arma. «Merda», brontolò, «Dovevi lasciarmelo fare.» E si voltò, allontanandosi rapido fuori dalla stanza.

Nei minuti seguenti, il posto si riempì di persone che cercavano disperatamente di lavorare senza guardare. Camilla Figg, un donnone con i capelli corti che faceva il tecnico di laboratorio e sembrava dotata di due sole espressioni, guardare e arrossire, raccoglieva le impronte piangendo in silenzio. Angel Batista, alias Angel Nessuna Parentela, come era solito dire quando si presentava, impallidì e serrò la mascella, anche se rimase nella stanza. Vince Masuoka, un collega che si fingeva anche lui un essere umano, fu percorso da un tremito così forte che dovette uscire a sedersi sul porticato.

Cominciai a domandarmi se dovessi mostrarmi anch’io impressionato, giusto per non dare nell’occhio. Forse sarei dovuto uscire e raggiungere Vince, sedermi accanto a lui. Di che cosa si parla in queste situazioni? Di baseball? Del tempo? Di certo non dell’essere da cui stavamo scappando, anche se mi sorpresi a notare che non mi sarebbe dispiaciuto chiacchierarne. Per la verità, quella cosa stava cominciando a generare un lieve brivido di eccitazione in una certa parte del mio subconscio. Avevo fatto di tutto per non attirare l’attenzione, ed ecco invece qualcuno che faceva l’opposto. Chiaramente il mostro voleva mettersi in evidenza per qualche motivo, forse solo per un naturale spirito di competizione; eppure la faccenda mi sembrò un po’ irritante, anche se mi spingeva a saperne di più. Chiunque fosse l’artefice, era diverso da tutti quelli che avevo incontrato. Dovevo inserire quell’anonimo predatore nella mia lista? O dovevo fingere di svenire dall’orrore e uscire a sedermi sotto il portico?

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