«Allora, Sergente Pesce Gatto…» esordii, mentre prendevamo il menù.
«Credi che sia divertente, Dexter?»
«Sì», risposi. «Molto divertente. E anche un po’ triste. Come la vita, d’altronde. Soprattutto la tua, Deborah.»
«’Fanculo, Charlie», ribatté lei. «La mia vita va bene.» E per dimostrarlo, ordinò un sandwich medianoche , il migliore di Miami, e un batido de mamey , un frullato a base di un singolare frutto tropicale che sa di pesca e anguria insieme.
La mia vita andava bene almeno quanto la sua, così ordinai la stessa cosa. Dato che eravamo clienti e frequentavamo il locale da una vita, il cameriere vecchio e mal rasato ci strappò via i menù con una faccia che avrebbe potuto fare da modello a Deborah e si diresse a passo pesante verso la cucina. Sembrava Godzilla in viaggio per Tokio.
«Sono tutti così allegri e sorridenti», notai.
«Dex, non è Friends , qui. Siamo a Miami. Solo i cattivi sorridono.» Mi squadrò senza espressione, un perfetto sguardo da poliziotto. «Come mai tu non ti metti a ridere o a cantare?»
«Sei acida, Deb. Davvero. Sono stato buono per mesi.»
Lei bevve un po’ d’acqua. «Uh-huh. Ed è per questo che stai impazzendo.»
«Ancora peggio», ammisi, alzando le spalle. «Sto diventando normale.»
«Chi vuoi fregare?»
«Triste ma vero. Sto diventando pantofolaio.» Esitai, poi spifferai tutto. In fondo, se non si parla dei propri problemi in famiglia, con chi ci si confida? «È colpa del sergente Doakes», dissi.
Deb annuì. «Devi proprio farglielo venire duro», commentò. «È meglio che ti tieni a distanza da lui.»
«È quello che vorrei», replicai. «Ma è lui che non vuole stare a distanza da me.»
Il suo sguardo da poliziotta si fece più severo. «Che cosa vuoi fare allora?»
Aprii la bocca pronto a sconfessare tutti i miei piani, ma per fortuna, per la gioia della mia anima immortale, prima che fossi costretto a mentire a Deb, fummo interrotti dalla sua radio. Piegò la testa da un lato e rispose che stava arrivando. «Avanti», e con un balzo raggiunse la porta. La seguii obbediente, fermandomi soltanto per lasciare i soldi sul tavolo.
Stavo ancora uscendo dal Relampago e Deborah faceva già marcia indietro con la macchina. Mi affrettai, lanciandomi disperatamente verso l’auto. Prima che riuscissi a salire con entrambe le gambe, lei era già fuori dal parcheggio. «Deb, non ci crederai», dissi, «ma ho rischiato di perdere una scarpa. Che cosa c’è di così importante?»
Deborah aggrottò le sopracciglia e, con una manovra tipica dei guidatori di Miami, si fiondò in un minuscolo spazio nel traffico. «Non so», rispose, accendendo la sirena.
Io battei le palpebre e alzai la voce: «Il centralinista non te l’ha detto?»
«Dexter, hai mai sentito balbettare un centralinista?»
«No, Deb, mai. Perché, questo lo faceva?»
Lei sterzò per evitare uno scuolabus e si lanciò sulla 836. «Già», disse. Svoltò all’improvviso per evitare una BMW piena di ragazzi che le fecero gestacci. «Credo si tratti di un omicidio.»
«Credi…»
«Già», tagliò corto, poi si concentrò sulla guida e io la lasciai fare. L’alta velocità riesce sempre a ricordarmi che anch’io sono mortale, specie per le strade di Miami. Riguardo al Caso del Centralinista Balbettante… il sergente Nancy Drew e io avremmo scoperto tutto al più presto, specialmente se filavamo di questo passo. Un po’ di brivido è sempre gradito.
In pochissimi minuti Deb riuscì a portarci nella zona dell’Orange Bowl senza causare perdite umane rilevanti; percorremmo una strada e dopo qualche rapida svolta accostammo al marciapiede di una casupola sulla North West 4 thStreet. Costruzioni identiche fiancheggiavano la via, una vicina all’altra, ognuna col suo muro di cinta o con una recinzione metallica. Molte avevano colori luminosi e cortili lastricati.
Due auto della polizia erano già ferme accanto alla casa, con le luci accese. Un paio di poliziotti stava srotolando il nastro giallo per delimitare la scena del delitto e quando scendemmo dalla macchina ne vidi un terzo sul sedile davanti di una delle auto, con la testa tra le mani. Sotto il porticato ce n’era un quarto, in piedi, accanto a una signora anziana. Lei era seduta sul secondo scalino del portico e, quando non piangeva, vomitava. Da qualche parte, lì vicino, un cane ululava emettendo la stessa, identica nota.
Deborah si diresse a passo di marcia verso il poliziotto più vicino. Era un uomo bruno e squadrato, sulla cinquantina, e dallo sguardo si capiva che anche lui avrebbe voluto restarsene in macchina con la testa tra le mani.
«Che cosa è successo?» chiese Deb mostrando il distintivo.
Il poliziotto scosse la testa senza guardarci e gli sfuggì: «Io lì dentro non ci torno, dovesse costarmi la pensione». E si allontanò, rischiando di finire contro un’autopattuglia; svolgeva davanti a sé il nastro giallo come se bastasse a proteggerlo da ciò che c’era all’interno.
Deborah rimase a fissare il poliziotto, poi alzò gli occhi verso di me. In tutta franchezza, non trovai nulla di davvero importante o intelligente da dire e per un po’ restammo semplicemente a guardarci. Il vento faceva ondeggiare il nastro giallo, mentre il cane continuava a ululare in una specie di strano falsetto che non faceva nulla per aumentare il mio amore nei confronti della sua specie.
Deborah scosse la testa. «Qualcuno dovrebbe farlo smettere», ringhiò, scavalcando il nastro e avviandosi verso l’ingresso. La seguii. Dopo qualche passo mi accorsi che il latrato era sempre più vicino; veniva dall’interno, forse era l’animale della vittima. Spesso reagiscono male alla morte del padrone.
Ci fermammo sui gradini e Deborah, dopo aver letto il nome sul cartellino, si rivolse al poliziotto: «Coronel. Questa signora è una testimone?»
L’uomo non alzò lo sguardo. «Già», disse. «Signora Medina. È stata lei a chiamarci.» La donna si piegò in avanti e vomitò.
Deborah si accigliò. «Che cosa gli è preso a quel cane?» domandò al collega.
Coronel emise un suono a metà tra la risata e il conato di vomito, ma non rispose né ci guardò.
Immaginai che Deborah ne avesse avuto abbastanza e non la biasimo. «Che cazzo sta succedendo?» esclamò.
Coronel si voltò a guardarci. Il suo viso era completamente inespressivo. «Lo scopra da sola», rispose, poi si girò dall’altra parte. Deborah stava per aggiungere qualcosa, ma cambiò idea e si rivolse a me alzando le spalle.
«Potremmo comunque dare un’occhiata», le suggerii, sperando di non apparire troppo impaziente. A dire il vero, ero ansioso di vedere che cosa riuscisse a risvegliare una reazione del genere nei poliziotti di Miami. Il sergente Doakes poteva anche proibirmi di combinare qualcosa con le mie mani, non impedirmi di ammirare la creatività altrui. Dopotutto, era il mio lavoro: perché non unire l’utile al dilettevole?
Deborah, d’altro canto, sembrava stranamente riluttante. Fissava il poliziotto ancora seduto in macchina, immobile, con la testa tra le mani. Il suo sguardo vagò su Coronel e sull’anziana signora, infine sull’ingresso della casupola. Inspirò ed espirò a fondo, poi disse: «D’accordo. Andiamo a dare un’occhiata». Ma non si mosse, così mi infilai davanti a lei e spinsi la porta.
L’ingresso era buio, le tende e gli scuri abbassati. C’era una poltrona che sembrava provenire da un robivecchi. La fodera era talmente sudicia che era impossibile stabilirne il colore. Di fronte, su un tavolino pieghevole, c’era un piccolo televisore. A parte quello, la stanza era vuota. Dalla porta di fronte all’ingresso si intravedeva una zona luminosa; sembrava che l’ululato venisse di lì, quindi mi diressi da quella parte, verso il retro della casa.
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