L’Alfa 159 attendeva Castillo dall’altra parte della strada, fiammante come sempre, ma i giorni di sosta forzata durante la malattia non le avevano fatto bene: l’ispettore impiegò quasi dieci minuti per riavviare il motore - più del tempo che, camminando, avrebbe impiegato per arrivare in ufficio - fra imprecazioni violente e le risa di Mar che, dalla finestra, lo spiava da dietro le tende.
La cosa che più lo faceva imbestialire, in queste situazioni, era che gli improperi non subivano l’effetto balbuzie: gli uscivano dalla bocca chiari, netti, indiscutibili, a prescindere dall’intensità della pioggia.
Accese la radio e iniziò a tamburellare con i polpastrelli a ritmo di musica sul volante, procedendo, come suo solito, a velocità bassissima, incurante degli sguardi di disprezzo, talvolta accompagnati da insulti, degli autisti più giovani che lo sorpassavano.
Andare in macchina era uno dei pochi momenti in cui il suo cervello si staccava dai pensieri quotidiani, in una sorta di zona franca che gli permetteva di analizzare le situazioni da un punto di vista esterno e in più di un’occasione questo distacco era stato la chiave di volta per trovare la soluzione dei casi che seguiva.
Arrivò in breve tempo nel parcheggio di Calle Arenal, scese con calma dall’auto, comprò un quotidiano all’angolo della strada, se lo infilò sotto il braccio e, attraversando Plaza Allende, procedette a passo tranquillo verso l’ufficio, poco distante.
Sembrava che la chiesa di San Isidro e la locanda Hermosa si guardassero in cagnesco, ognuna affacciata sul proprio lato della piazza.
Nel frattempo aveva smesso di piovere e questo gli dava maggior tranquillità per il rientro al lavoro anche se, dopo tutti quegli anni, la balbuzie aveva smesso di costituire un problema insormontabile per lui.
Entrò in ufficio aprendo la porta di soppiatto, quasi non volesse farsi notare, ma il volume della radio che sparava You shook me all night long lo avrebbe comunque coperto.
Trovò lo Slavo intento ad armeggiare con il modem, accucciato a fianco del suo computer; aveva la testa incassata fra le spalle per non sbattere con la nuca contro il tavolo e, stando alla smorfia del volto, la posizione innaturale non doveva essere proprio comoda.
Si schiarì la voce, ma questo non servì a far sì che lo Slavo si rendesse conto del suo arrivo.
Optò allora per l’intervento radicale, spegnendo lo stereo proprio un attimo prima del ritornello.
Un gesto di una violenza inaudita, per un amante del rock come lui, che una volta, ai tempi dell’università, telefonò alla radio nazionale per lamentarsi con il deejay di aver malamente sfumato Sultans of Swing prima dell’assolo finale.
L’improvviso silenzio nell’ufficio ebbe l’effetto sperato, richiamando l’attenzione dello Slavo, che emerse da sotto al tavolo stirandosi la schiena, sempre con il modem in mano.
«Quindi? Non l’hai ancora riportato indietro quell’aggeggio?» attaccò Castillo, appendendo l’impermeabile verde all’attaccapanni posizionato di fianco all’entrata.
«Buongiorno ispettore, ben tornato» rispose sorridendo lo Slavo, tendendogli la mano, che l’ispettore strinse con il solito vigore accompagnato dal sorriso bonario che non lesinava mai agli amici.
«Per il rientro ci vuole subito un quiz, ragazzo».
Con una perfetta pausa finalizzata ad aumentare il climax della situazione, Castillo si fermò un attimo, senza distogliere lo sguardo dal suo interlocutore e scandì con voce roca i versi di un brano che lo riempiva di emozioni.
Take your time
Hurry up
The choice is yours
Don’t be late
Take a rest
As a friend
As an old memoria.
Lo Slavo ci mise un secondo per capire il brano.
«Ispettore, troppo facile! Come as you are , Nirvana».
«Lo so che è facile, ma non volevo avvelenarti il mio rientro con cose troppo complicate… pensa che ascoltavo questa canzone quando la signora Conchita era incinta di Carmen e ogni volta che la sento mi si drizzano i peli sulle braccia! Ah, la mia bambina! E ora lasciami leggere un attimo il giornale, tu intanto vedi di sistemare quel maledetto modem, ok?».
«D’accordo ispettore, d’accordo».
Lo Slavo si rimise al lavoro, accucciandosi sotto il tavolo del computer con un accenno di sorriso sulle labbra, e rendendosi conto di quanto il rientro dell’ispettore lo rallegrasse; poco dopo, si rimise all’ascolto di Radio Reloj, che trasmetteva buona musica rock senza interruzioni di assoli, come amava sottolineare Castillo.
Ma quella mattina, il deejay fece un’eccezione, tagliando bruscamente l’estasi di Slash nella versione dal vivo di Knocking on Heavens Door .
«Interrompiamo la programmazione, cari ascoltatori, per comunicare purtroppo una tragica notizia. Il parroco di Burgos, Padre Juan, è stato trovato morto questa mattina in Calle del Tesoro, a seguito di una caduta dal balcone dell’appartamento nel quale viveva. Non si hanno al momento elementi per valutare con precisione la dinamica dell’accaduto. Vi terremo aggiornati in tempo reale, come sempre».
La ripresa immediata dell’assolo provocò all’ispettore un brivido freddo che gli percorse la schiena come una scossa elettrica.
Appoggiò la testa sullo schienale della propria poltrona da ufficio e fissò lo sguardo sulle dense nuvole nel cielo, che garantivano di lì a breve nuovi acquazzoni.
Mentalmente, imprecò.
«Slavo, andiamo subito a vedere cosa è successo, ho voglia di muovermi e di far andare un po’ la testa su questo suicidio» sentenziò, infilandosi l’impermeabile e raccattando dal portaombrelli l’unico ombrellino rimasto.
«Sempre che di suicidio si tratti» pensò poi fra sé e sé, dubbioso.
Attraversarono piazza Allende di buon passo, Castillo davanti, lo Slavo un mezzo metro dietro, arrancando.
Camminava zoppicando in modo quasi impercettibile, ma Castillo, fine osservatore, non aveva perso quel dettaglio e si era più volte ripromesso di chiedergli quale ne fosse la causa, ma per un motivo o per l’altro non l’aveva mai fatto.
E anche in quel caso i suoi pensieri erano stati subito calamitati dalla notizia di Padre Juan, lasciando l’andatura sbilenca dell’amico in un lontano secondo piano.
Castillo era un vecchio conoscente del prete, con cui aveva condiviso gli anni dell’università, a San Josè e, nonostante le loro strade avessero poi seguito percorsi diversi, quasi divergenti, fra i due si era mantenuta una stima reciproca che portava l’ispettore a definire Padre Juan come il proprio unico amico in ambito clericale.
Era un parroco atipico, con una folta chioma di capelli ricci in perenne disordine e una barba poco curata.
Vestiva moderno, spesso in jeans e anfibi, tanto che in molti stentavano a credere che fosse veramente un ecclesiastico, ma forse proprio per quello nel paese era diventato un punto di riferimento imprescindibile per tutti, cattolici e non.
La sua capacità oratoria era proverbiale e le prediche domenicali costituivano un appuntamento importante per la comunità, a prescindere dal credo dei singoli.
Castillo e lo Slavo arrivarono al parcheggio di Calle Arenal in pochi minuti, non sufficienti però a evitare le prime gocce di pioggia sulle loro teste.
«G-guida tu, per favore, che io ho b-bisogno di riflettere» disse l’ispettore, lanciando le chiavi dell’Alfa allo Slavo e alzandosi il colletto dell’impermeabile per ripararsi dalle prime raffiche di vento che iniziavano a spazzare le strade.
Lo Slavo prese le chiavi al volo e senza dire una parola avviò il motore.
Le strade erano semideserte e, durante il breve viaggio per raggiungere la zona popolare di Calle del Tesoro, permasero assorti nei propri pensieri.
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