Harlan Coben - Non hai scelta

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Marc Seidman ha tutto ciò che si può desiderare dalla vita: chirurgo plastico di successo, vive con la bella moglie e la figlioletta Tara di pochi mesi in una bella casa nei sobborgi di New York. Ma quando riprende conoscenza in una camera d’ospedale dove è stato ricoverato in fin di vita, Marc scopre con orrore d’aver subito un’aggressione durante la quale la moglie è stata uccisa e sua figlia è scomparsa senza lasciare traccia. Come se non bastasse Marc si ritrova ad essere il primo sospetto…

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Guardai la sveglietta sul comodino e per questo poi seppi con precisione che erano le 10.18. Passando davanti alla finestra lanciai un’occhiata distratta in strada. Nell’oscurità non me ne accorsi quasi, a livello conscio cioè non avevo registrato nulla, ma qualcosa mi si era per così dire “impigliato” nella vista. Mi fermai a guardare con maggiore attenzione.

C’era una donna sul marciapiedi, immobile come una statua, e guardava verso casa mia. Immaginavo stesse guardando, non potevo affermarlo con certezza perché il viso era immerso nell’ombra. Aveva i capelli lunghi, questo riuscii a vederlo, e indossava un soprabito. Teneva le mani infilate nelle tasche.

E se ne stava lì, ferma.

Non sapevo bene che cosa fare. I media avevano parlato di me, naturalmente, e i cronisti venivano a bussare a tutte le ore. Guardai la strada da un’estremità all’altra, ma non vidi auto o furgoni delle stazioni TV, nulla. Era venuta a piedi. Anche questo non doveva sorprendere, perché nel quartiere residenziale dove abito la gente passeggia a tutte le ore, di solito con un cane o un coniuge o entrambi, e non era una notizia clamorosa quella di una donna che passeggiava da sola.

Ma perché si era fermata davanti a casa mia?

Curiosità morbosa, pensai.

Vista dalla mia finestra sembrava alta, ma non ne ero sicuro. E non ero nemmeno sicuro sul da farsi. Provai una sensazione di disagio lungo la schiena. Poi afferrai la felpa e me la infilai sopra la giacca del pigiama, ripetendo l’operazione con i pantaloni della tuta. Guardai di nuovo dalla finestra e la donna s’irrigidì.

Mi aveva visto.

Si voltò e prese ad allontanarsi a passo veloce. Provai un senso di oppressione al petto. Cercai di tirare su il vetro della finestra, che però non si mosse. Detti qualche colpo alle due estremità e riuscii ad aprire uno spiraglio di pochi centimetri, al quale avvicinai la bocca.

«Aspetti!»

Lei accelerò il passo.

«Si fermi un attimo, la prego.»

La donna cominciò a correre. Maledizione. Mi misi all’inseguimento, non sapevo dove avevo lasciato le pantofole e non c’era il tempo per cercare le scarpe. Schizzai fuori, con l’erba che mi solleticava i piedi, cercai di raggiungerla ma non la vidi più.

Rientrato in casa, telefonai a Regan per raccontargli l’accaduto, ma mentre parlavo mi rendevo conto di quanto tutto apparisse stupido. C’era una donna ferma davanti a casa mia. Sai che notizia! Anche Regan mi sembrò tutt’altro che colpito. Mi convinsi allora che non avevo di che preoccuparmi, quella donna era soltanto una vicina impicciona. Tornai a letto, spensi il televisore e finalmente chiusi gli occhi.

Ma la notte non era ancora finita.

Alle quattro del mattino, mentre mi trovavo in quello stato che ora chiamo “sonno”, squillò il telefono. Non mi addormento più profondamente, ci rimango come sospeso sopra con gli occhi chiusi. Le notti si trascinano a fatica come i giorni, separati fra loro da una tendina evanescente. Di notte il corpo riesce a riposare, ma il cervello si rifiuta di spegnere l’insegna e abbassare la saracinesca.

Me ne stavo a occhi chiusi, ricostruendo per l’ennesima volta quella tragica mattina nella speranza di riportare alla luce qualche ricordo sommerso. Cominciai da dove mi trovavo in quel momento, dalla stanza da letto. Ricordo la sveglia che suonava, io e Lenny dovevamo andare a giocare a racquetball quella mattina. Avevamo cominciato a farlo circa un anno prima, il mercoledì, e il nostro stile era passato da “pietoso” a “quasi decente”. Monica era già sveglia e stava facendo la doccia, io dovevo cominciare a lavorare in sala operatoria alle undici. Mi ero alzato ed ero subito andato a guardare Tara nella sua culla, per poi tornare in camera da letto. Monica era uscita dal bagno e si stava infilando i jeans. Sempre in pigiama ero sceso in cucina, avevo aperto lo sportello destro del frigorifero Westinghouse, scelto il biscotto di müsli al lampone preferendolo a quello al mirtillo (di recente avevo riferito a Regan anche questo particolare, come se avesse una qualche rilevanza) e mi ero chinato sul lavandino per sgranocchiarlo…

Bam, fine del ricordo. Più niente fino al risveglio in ospedale.

Il telefono squillò una seconda volta. Aprii gli occhi.

Trovai a tentoni la cornetta e la sollevai. «Pronto?»

«Sono il detective Regan, sono con l’agente Tickner. Saremo da lei tra due minuti.»

Inghiottii a vuoto. «Che cos’è successo?»

«Due minuti.»

E riagganciò.

Scesi dal letto e guardai dalla finestra, come se mi aspettassi di rivedere quella donna. Non c’era nessuno. I miei jeans del giorno prima erano buttati sul pavimento. Li presi e me li infilai. Poi mi misi una felpa, scesi, aprii la porta di casa e guardai fuori. Un’auto della polizia, con Regan al volante e Tickner seduto accanto, svoltò l’angolo. Credo di non averli mai visti arrivare su due auto diverse.

Non portavano buone notizie, lo sapevo.

I due scesero dall’auto e mi sentii sommergere dalla nausea. Mi ero preparato a questa visita fin dal giorno della consegna del riscatto, avevo addirittura immaginato scena per scena ciò che sarebbe accaduto, come loro mi avrebbero dato la mazzata e io avrei annuito, per poi ringraziarli e congedarli. Avevo provato e riprovato la mia reazione. Sapevo esattamente come avrei accolto la notizia.

Ora però, osservando Regan e Tickner avvicinarsi, le mie difese crollarono e venni sopraffatto dal panico. Cominciai a rabbrividire, mi cedettero quasi le ginocchia e dovetti appoggiarmi allo stipite. I due camminavano tenendo lo stesso passo e mi venne in mente un vecchio film di guerra, la scena in cui i due ufficiali si presentano serissimi a casa della madre. Scossi il capo, come se volessi scacciarli dalla mia vista.

Arrivati alla porta, i due entrarono.

«Abbiamo qualcosa da mostrarle» disse Regan.

Mi voltai e li seguii. Regan accese una lampada, che non faceva però molta luce. Tickner andò a sedersi sul divano e accese il suo computer portatile. Lo schermo prese vita, inondando l’agente della luce azzurra del display a cristalli liquidi.

«C’è una novità» spiegò Regan.

Mi avvicinai.

«Suo suocero ci aveva dato un elenco delle banconote del riscatto, ricorda?»

«Sì.»

«Una di queste banconote è stata utilizzata in una banca ieri pomeriggio. L’agente Tickner ora le mostrerà un video.»

«Della banca?»

«Sì. Abbiamo scaricato sul suo computer le immagini riprese dalla telecamera a circuito interno. Dodici ore fa qualcuno ha cambiato in quella banca una banconota da cento dollari. Vogliamo che lei dia un’occhiata a questo video.»

Mi sedetti accanto a Tickner e lui premette un tasto. Il video partì immediatamente. Mi aspettavo immagini di scarsa qualità tecnica, sgranate e in bianco e nero, ma mi sbagliavo. Erano state prese dall’alto e in colori forse troppo accesi. Un uomo calvo stava parlando al cassiere, non c’era sonoro.

«Non lo riconosco» dissi.

«Aspetti.»

L’uomo calvo disse qualcosa al cassiere ed entrambi si fecero una bella risata, poi il cliente si mise in tasca un foglio di carta e fece un gesto di saluto, che il cassiere ricambiò. Fu quindi il turno del cliente successivo. E mi udii gemere.

Era mia sorella, Stacy.

Fui subito invaso da quell’insensibilità che avevo tanto agognato. Non so perché, forse perché stavo provando nello stesso tempo due emozioni radicalmente opposte. Una era di spavento, mia sorella aveva fatto una cosa del genere. Mia sorella, alla quale avevo voluto tanto bene, mi aveva tradito. Ma l’altra emozione era la speranza, ora avevo una speranza. Esisteva una pista. E se era quella di Stacy, non riuscivo a credere che avrebbe potuto fare del male a Tara.

«È sua sorella quella donna?» mi chiese Regan, puntando il dito sullo schermo del computer.

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