Harlan Coben - Non hai scelta

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Marc Seidman ha tutto ciò che si può desiderare dalla vita: chirurgo plastico di successo, vive con la bella moglie e la figlioletta Tara di pochi mesi in una bella casa nei sobborgi di New York. Ma quando riprende conoscenza in una camera d’ospedale dove è stato ricoverato in fin di vita, Marc scopre con orrore d’aver subito un’aggressione durante la quale la moglie è stata uccisa e sua figlia è scomparsa senza lasciare traccia. Come se non bastasse Marc si ritrova ad essere il primo sospetto…

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Mi si ghiacciò il sangue.

«Non avrai una seconda possibilità.»

E il telefono tacque.

6

Non c’era via di fuga.

Quanto avrei voluto perdere conoscenza, quanto avrei voluto tornare nello stato comatoso dei miei giorni all’ospedale, quanto avrei voluto quella flebo dalla quale gocciolava l’anestetico. E invece la pelle mi era stata strappata, i terminali nervosi erano scoperti. E sentivo tutto. Tutto.

Mi sentii sopraffatto dalla paura e dal senso d’impotenza. La paura mi aveva chiuso in una stanza mentre il senso d’impotenza, quell’orribile consapevolezza di avere rovinato tutto e non potere quindi fare più nulla per alleviare il dolore della mia bambina, mi aveva avvolto in una camicia di forza spegnendo poi la luce. Avrei potuto perdere la ragione, poco ma sicuro.

I giorni passarono in una caligine mielosa. Trascorrevo in pratica l’intera giornata seduto accanto al telefono, anzi ai telefoni: quello di casa, il mio cellulare e quello dei rapitori. Per quest’ultimo avevo comprato un caricatore, per tenerlo sempre in funzione. Me ne stavo sul divano, con i telefoni alla mia destra. Cercavo di guardare da un’altra parte, di accendere magari il televisore, ricordando il vecchio adagio: “Pentola guardata non bolle mai”. Lanciavo però ogni tanto un’occhiata a quei maledetti telefoni per farli suonare, quasi temessi che da un momento all’altro potessero volare via.

Tentai nuovamente di scavare nel soprannaturale rapporto padre-figlia, quello che aveva cercato di convincermi che Tara era ancora viva. Mi sembrò ancora di sentirne le pulsazioni (o quanto meno mi sforzai di crederlo) anche se molto deboli; il rapporto si era affievolito.

“Non avrai una seconda possibilità…”

Ad aumentare il mio senso di colpa aveva contribuito un sogno fatto la notte prima, del quale era stata protagonista una donna ma non Monica: Rachel, il mio vecchio amore. Uno di quei sogni dalla distorsione spazio-temporale, quelli in cui il mondo è totalmente sconosciuto oltre che contraddittorio, ma che tu accetti come normale. Rachel e io eravamo insieme, non avevamo mai rotto eppure eravamo rimasti separati tutto questo tempo. Io avevo ancora trentaquattro anni, ma per lei non era passato nemmeno un giorno da quando mi aveva lasciato. Nel sogno Tara era ancora mia figlia e non era mai stata rapita, ma in qualche modo era figlia anche di Rachel, nonostante lei non fosse sua madre. Sogni del genere li avrete probabilmente fatti anche voi. Nulla ha davvero senso ma l’autore del sogno non mette in discussione il mondo che lo circonda. Quando mi svegliai, il sogno era svanito, come accade sempre. E a me era rimasto un retrogusto e un folle desiderio che mi attanagliava con imprevedibile forza.

Mia madre bazzicava troppo per casa. Mi aveva appena messo davanti un altro vassoio pieno di roba da mangiare e per la milionesima volta l’avevo ignorato. «Devi recuperare le forze per Tara» era il mantra che ripeteva in continuazione.

«Proprio così, mamma, dipende tutto dalla forza. Probabilmente se facessi sollevamento pesi riporterei a casa la bambina.»

Mamma scosse il capo, rifiutandosi di abboccare. Ero stato crudele a dire queEe parole, anche lei soffriva. La sua nipotina era scomparsa e suo figlio era in condizioni orribili. La udii sospirare, poi tornò in cucina, ma non le chiesi scusa.

Tickner e Regan mi venivano a trovare abbastanza spesso. Mi ricordai quel passo di Shakespeare: “L’urlo e il furore non hanno alcun significato”. Mi parlarono delle meraviglie tecnologiche utilizzate nelle ricerche di Tara, roba relativa al DNA, alle impronte latenti, alle telecamere di sicurezza, agli aeroporti, ai caselli autostradali, alle stazioni ferroviarie, ai traccianti radioattivi, alla sorveglianza e ai laboratori. Mi snocciolarono tutto il repertorio di luoghi comuni del poliziotto dei giornali, del tipo “non trascuriamo alcun indizio” oppure “le indagini a trecentosessanta gradi” e io annuii. Mi fecero vedere anche diverse foto segnaletiche, ma l’esattore con la camicia di flanella a scacchi non compariva sui loro album.

«Abbiamo fatto un controllo sulla B T Electricians» mi disse Regan quella prima sera. «La ditta esiste, usano insegne magnetiche che attaccano sulle fiancate dei loro automezzi. Gliene hanno portata via una due mesi fa, ma avevano deciso che non fosse il caso di fare denuncia.»

«E la targa?» gli chiesi.

«Il numero che ci ha dato non esiste.»

«Com’è possibile?»

«Hanno usato due vecchie targhe» mi spiegò. «Le tagliano a metà, poi saldano la parte sinistra di una con la parte destra dell’altra.»

Rimasi a guardarlo.

«Questa potrebbe essere una cosa positiva» aggiunse lui.

«Come?»

«Significa che abbiamo a che fare con dei professionisti. Sapevano che se lei ci avesse raccontato tutto noi avremmo circondato il centro commerciale, e allora hanno trovato per la consegna del riscatto un posto dove non ci saremmo potuti appostare senza essere visti. Poi ci hanno fatto seguire piste false come l’insegna del furgone o le targhe saldate. Professionisti, come dicevo.»

«E questa sarebbe una cosa positiva…»

«Di solito i professionisti non sono assetati di sangue.»

«E allora che cosa stanno facendo?»

«Secondo noi, dottor Seidman, stanno cercando di ammorbidirla per chiederle altri soldi.»

Ammorbidirmi. Ci stavano riuscendo.

Mio suocero aveva telefonato dopo il fiasco del riscatto e nella sua voce avevo colto la delusione. Non vorrei sembrare ingeneroso, perché era stato Edgar a tirare fuori i soldi e a chiarire che era pronto a tirarne fuori degli altri: ma ebbi l’impressione che all’origine della sua delusione non ci fosse tanto il fallimento dell’operazione, quanto il fatto che non avessi seguito il suo consiglio e avessi avvertito la polizia.

E naturalmente aveva ragione. Avevo mandato tutto a puttane.

Cercai di partecipare alle indagini, ma la polizia era tutt’altro che disposta a incoraggiarmi. Nei film le autorità collaborano con la vittima e la mettono al corrente dei nuovi elementi d’indagine. Io naturalmente feci un sacco di domande a Tickner e Regan e loro nemmeno mi risposero, non entrarono mai con me nei particolari, consideravano le mie domande con una punta di disprezzo. Volevo per esempio sapere di più su come era stato trovato il cadavere di mia moglie, sul perché era nuda. Ma loro facevano ostruzionismo.

Anche Lenny veniva spesso a trovarmi e cercava di non guardarmi negli occhi, anche lui si sentiva in colpa per avermi consigliato di andare alla polizia. Riguardo a Regan e Tickner, il senso di colpa che si leggeva sui loro volti era ambivalente: lo provavano sia perché la faccenda era finita male sia perché pensavano, probabilmente, che dietro quel sequestro anomalo ci fosse fin dall’inizio il marito e il padre in lacrime. I due agenti vollero sapere i particolari sul mio precario ménage matrimoniale, sulla mia pistola scomparsa. Era esattamente come aveva previsto Lenny. Più il tempo passava, più inquadravano nel loro mirino l’unico sospetto a disposizione.

Il sottoscritto.

Dopo una settimana la presenza di polizia e FBI prese a diradarsi. Regan e Tickner vennero a trovarmi con minore frequenza e quando venivano abbassavano spesso lo sguardo sull’orologio, oppure se ne andavano con la scusa di dovere fare qualche telefonata per altre indagini. Li capivo, naturalmente. Non c’erano stati fatti nuovi, le acque si stavano calmando. E una parte di me accettava volentieri quella tregua.

Poi, al nono giorno, tutto cambiò.

Alle dieci di sera cominciai a spogliarmi per andare a letto. Ero solo. Voglio bene agli amici e ai miei familiari, ma loro stessi cominciavano a rendersi conto che avevo bisogno di starmene un po’ per conto mio. Se n’erano andati vìa prima di cena. Avevo ordinato qualcosa per telefono da Hunan Garden e, come da istruzioni materne, avevo mangiato per rimettermi in forze.

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