«Ne è sicuro?»
«Sì.»
«Si accomodi.»
Mia madre stava sulla soglia della cucina, torcendosi le mani. Da quanto stava ascoltando? Troppo, a giudicare dal suo viso. Mi guardò ansiosa, io annuii e lei andò a telefonare a Lenny. Incrociai le braccia, ma la cosa non mi fece sentire meglio. Battei ritmicamente il piede sul pavimento. Tickner si tolse gli occhiali da sole, incrociò il mio sguardo e per la prima volta parlò.
«Che cosa c’è dentro il borsone?» mi chiese.
Lo guardai.
«Quel borsone da ginnastica che stringe in mano.» La voce di Tickner contraddiceva il suo aspetto, aveva cioè una cadenza scialba simile a un mugolio. «Che cosa,c’è dentro?»
Era stato tutto un errore, avrei dovuto ascoltare Lenny, avrei dovuto chiamarlo immediatamente. Ora non sapevo che cosa rispondere. Dall’altra stanza giunse la voce di mia madre che pregava Lenny di sbrigarsi. Cercavo disperatamente una risposta un minimo convincente che mi consentisse di prendere tempo, ma non me ne veniva in mente nessuna, poi un suono catturò la mia attenzione.
Il cellulare, quello che i rapitori avevano mandato a mio suocero, si era messo a squillare.
Tickner e Regan aspettavano che rispondessi.
Chiesi scusa, alzandomi prima che potessero fare qualcosa, magari frugarmi in tasca per prendere il telefono mentre uscivo in fretta dal soggiorno. Il sole mi colpì in viso e battei le palpebre per vedere la tastiera del cellulare. Il pulsante per rispondere si trovava in una posizione diversa rispetto al mio telefono. Dall’altra parte della strada stavano passando due ragazze con caschi dai colori vivaci in sella a bici luminescenti; dalle manopole di un manubrio pendevano striscioline di plastica rosa.
Quando ero piccolo in questa zona scorrazzavano una quindicina di ragazzini della mia età. Ci vedevamo dopo la scuola e non ricordo più che giochi facevamo, nel senso che non eravamo mai abbastanza organizzati per una partita a baseball o qualcosa del genere, ma tutti questi giochi prevedevano la ricerca di qualcuno che si era nascosto, oltre a una certa dose di finta (ma a volte non troppo) violenza. Di solito l’adolescenza nei quartieri residenziali della periferia è chiamata “il tempo dell’innocenza”: ma quante volte al termine di quelle giornate insieme almeno un ragazzino non se ne tornava a casa in lacrime? Discutevamo, rompevamo certe alleanze per stringerne altre, facevamo dichiarazioni d’amicizia o di guerra e il giorno dopo, come per un corto circuito mentale, tutto era dimenticato. Ogni pomeriggio davamo un colpo di spugna al passato, formavamo nuove alleanze e un altro ragazzino tornava a casa in lacrime.
Il pollice premette finalmente il tasto giusto e nello stesso momento mi portai il cellulare all’orecchio. Il cuore mi rimbalzava contro le costole. Mi schiarii la voce e, sentendomi un perfetto idiota, dissi: «Pronto».
«Rispondi sì o no.» La voce aveva l’intonazione metallica di quei nastri registrati che ti dicono di premere uno per l’operatore, due per l’amministrazione, tre per il servizio clienti e così via. «Li hai i soldi?»
«Sì.»
«Lo sai dov’è il centro commerciale Garden State Plaza?»
«A Paramus» risposi.
«Tra due ore esatte voglio vedere la tua auto ferma al parcheggio nord, vicino a Nordstrom’s, Sezione 9. Qualcuno si avvicinerà all’auto.»
«Ma…»
«Se non sarai solo, scompariremo. Se qualcuno ti seguirà, scompariremo. Se sentirò puzza di sbirri, scompariremo. Non avrai una seconda possibilità. Hai capito?»
«Sì, ma quando…»
Clic.
La mano mi cadde lungo il fianco, mi sentii invadere da una specie d’intorpidimento al quale non opposi resistenza. Le ragazze di fronte a casa mia si erano messe a discutere. Non riuscivo a sentire il motivo della discussione, ma udivo ogni tanto l’aggettivo mio e quella semplice sillaba ogni volta veniva accentuata e prolungata. Da dietro l’angolo spuntò un fuoristrada e rimasi a fissarlo come dall’alto di una nuvola. I freni stridettero e lo sportello dalla parte del guidatore si aprì prima ancora che l’auto si fosse completamente fermata.
Era Lenny. Sollevò lo sguardo su di me e accelerò il passo. «Marc?»
«Avevi ragione.» Gli indicai la casa con il capo. Regan si era messo accanto alla porta. «Credono che c’entri io.»
Il viso di Lenny si rabbuiò, strinse gli occhi e le pupille si trasformarono in punte di spillo. Lenny si stava trasformando in Cujo. Guardò Regan come per decidere quale arto azzannargli per primo. «Hai parlato con loro?»
«Un po’.»
Lenny mi fulminò con un’occhiata. «Non gliel’hai detto che volevi il tuo avvocato?»
«Non subito.»
«Maledizione, Marc. Te l’avevo detto di…»
«Mi è arrivata una richiesta di riscatto.»
Queste parole furono sufficienti a bloccarlo. Guardai l’orologio, Paramus era a una quarantina di minuti d’auto, che con il traffico potevano diventare sessanta. Avevo tempo, ma non troppo. Cominciai a raccontargli della telefonata, Lenny guardò Regan e mi fece allontanare dalla casa. Ci fermammo sul marciapiedi, accanto a quelle pietre color grigio-nuvola che delimitano le proprietà simili a una fila di denti e poi, come due ragazzini, ci accovacciammo su due di queste pietre, con le ginocchia quasi all’altezza del mento. Vedevo uno spicchio di pelle di Lenny tra i calzini a disegni scozzesi e il risvolto dei pantaloni. Era scomodissimo starsene seduti in quel modo, oltretutto con il sole in faccia. Non ci guardavamo in viso, come da ragazzini, e questo mi rese più facile raccontargli tutto.
Parlavo in fretta ed ero a metà del racconto quando Regan si mosse verso di noi. Lenny si voltò verso di lui. «Le sue palle» gli gridò.
Regan si fermò. «Che cosa?»
«Sta per arrestare il mio cliente?»
«No.»
Lenny gli puntò un dito in direzione dell’inguine. «Allora, se muove un altro passo, farò rivestire di bronzo le sue palle e le appenderò allo specchietto retrovisore della mia auto.»
Regan raddrizzò le spalle. «Abbiamo ancora qualche domanda da fare al suo cliente.»
«Sarà difficile. Se volete abusare del vostro potere assicuratevi di avere a che fare con qualcuno che abbia un avvocato meno tosto di me.»
Lenny fece un gesto come per dirgli di levarsi dai piedi e mi ordinò con un cenno del capo di andare avanti. Regan, suo malgrado, arretrò di un paio di passi. Guardai nuovamente l’ora, dalla telefonata con la richiesta di riscatto erano trascorsi solo cinque minuti. Terminai il mio racconto, mentre Lenny non staccava gli occhi da Regan.
«Vuoi la mia opinione?» mi chiese.
«Sì.»
Era ancora accigliato. «Credo che dovresti dirglielo.»
«Ne sei sicuro?»
«No, che diamine!»
«Tu lo faresti? Se ci fosse in ballo uno dei tuoi figli, voglio dire.»
Lenny rifletté per qualche secondo. «Non posso mettermi nei tuoi panni, se è questo che vuoi dire. Comunque sì, credo che glielo direi. Per il calcolo delle probabilità, si hanno maggiori possibilità avvertendo la polizia. Ciò non significa che finisca sempre bene, ma in queste faccende loro hanno esperienza e noi no.» Lenny puntò i gomiti contro le ginocchia appoggiando il mento sulle mani, come faceva da giovane. «Questa è l’opinione dell’amico Lenny» proseguì. «L’amico Lenny ti direbbe di raccontarglielo.»
«E l’avvocato Lenny?»
«Sarebbe più insistente, cercherebbe in tutti i modi di convincerti a metterti nelle loro mani.»
«Perché?»
«Perché se i due milioni di dollari dovessero scomparire, anche se riporti a casa Tara, la cosa alimenterebbe, a dir poco, i loro sospetti.»
«Non m’importa. Voglio solo riprendermi Tara.»
«Capisco. O, per meglio dire, l’amico Lenny capisce.»
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