Harlan Coben - Non hai scelta

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Marc Seidman ha tutto ciò che si può desiderare dalla vita: chirurgo plastico di successo, vive con la bella moglie e la figlioletta Tara di pochi mesi in una bella casa nei sobborgi di New York. Ma quando riprende conoscenza in una camera d’ospedale dove è stato ricoverato in fin di vita, Marc scopre con orrore d’aver subito un’aggressione durante la quale la moglie è stata uccisa e sua figlia è scomparsa senza lasciare traccia. Come se non bastasse Marc si ritrova ad essere il primo sospetto…

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C’è anche la madre di Monica. “Riposa” molto, la signora Portman, fa vacanze “prolungate”. Insomma, entra ed esce dalle case di cura. Nelle due circostanze in cui l’ho vista, mia suocera era pronta per qualche occasione sociale, tutta in ghingheri e incipriata, gentile e troppo pallida, aveva lo sguardo vuoto, biascicava le parole e dondolava leggermente.

A parte lo zio Carson, Monica non aveva più contatti con la sua famiglia. La cosa, come potete immaginare, mi lasciava abbastanza indifferente.

«Voleva vedermi?» chiesi.

«Sì, Marc. Volevo vederla.»

Attesi.

Edgar appoggiò le mani sulla scrivania. «Amava mia figlia?»

La domanda mi sorprese con la guardia abbassata, ma riuscii a rispondere senza esitare. «Moltissimo.»

Sembrò che si fosse accorto della bugia e io feci di tutto per non abbassare lo sguardo. «Ma Monica non era felice, come ben sa.»

«Non credo che fosse per colpa mia.»

Annuì lentamente. «Eh già.»

Ma difendermi scaricando la responsabilità, non funzionava con me. Quelle due parole di Edgar ebbero l’effetto di un altro cazzotto e ancora una volta sentii crescere in me il senso di colpa.

«Lo sapeva che era in cura da uno psichiatra?» mi chiese Edgar.

Mi voltai verso Carson, poi riportai lo sguardo sul padrone di casa. «No.»

«Non voleva che si sapesse.»

«Lei come l’ha scoperto?»

Non rispose, ma si guardò le mani. «Voglio farle vedere qualcosa» disse poi.

Lanciai un’altra occhiata di sottecchi a Carson, aveva la mascella contratta e mi sembrò di vederla tremare. «Okay» dissi.

Edgar aprì il cassetto della scrivania, vi infilò una mano e tirò fuori un sacchetto di plastica, sollevandolo e tenendolo per un angolo tra pollice e indice. Non me ne resi immediatamente conto, ma quando capii che cosa stavo guardando sbarrai gli occhi.

Edgar notò la mia reazione. «La riconosce, vero?»

All’inizio non riuscii a parlare. Guardai Carson, aveva gli occhi rossi. Riportai lo sguardo su Edgar e annuii come inebetito. Dentro il sacchetto di plastica c’era un pezzetto di stoffa, grande forse sette centimetri per sette. Il disegno era lo stesso che avevo notato due settimane prima, subito prima che mi sparassero.

Pinguini neri su sfondo rosa.

La mia voce era poco più di un sussurro. «Dove l’ha trovata?»

Edgar mi porse una grossa busta marrone, di quelle imbottite con le bolle d’aria. Anche questa era protetta dalla plastica. La girai. Su un’etichetta bianca si leggevano nome e indirizzo di Edgar, ma non era stato indicato il mittente. Sul timbro si leggeva: NEW YORK CITY.

«È arrivata oggi con la posta» disse Edgar. Fece un gesto indicando il pezzo di stoffa. «È della tuta di Tara?»

Credo di avere risposto di sì.

«C’è altro.» Edgar infilò nuovamente la mano nel cassetto. «Mi sono preso la libertà di mettere tutto dentro sacchetti di plastica, nel caso le autorità volessero accertarne la provenienza.»

Mi porse un altro sacchetto di plastica, questo con la chiusura a pressione e più piccolo degli altri. Dentro si vedevano dei capelli, ciuffettini di capelli. In preda a un terrore crescente capii che cosa stavo guardando. E mi si fermò il respiro.

Capelli di neonato.

Da lontano sentii Edgar chiedere: «Sono della bambina?».

Chiusi gli occhi e tentai di immaginarmi Tara nella culla. E scoprii inorridito che l’immagine di mia figlia stava già cominciando a svanirmi dalla memoria. Ma come poteva essere? Non riuscii a capire se stavo vedendo un ricordo oppure qualcosa che mi ero sforzato di creare per sostituire ciò che stavo già dimenticando. Maledizione! Sentii le lacrime premermi contro le palpebre. Cercai di ricreare il contatto della mia mano con la sua morbida testolina.

«Marc?»

«Potrebbero esserlo» risposi, aprendo gli occhi. «Non posso esserne sicuro.»

«C’è qualcos’altro.» Edgar mi porse un altro sacchetto di plastica e io posai piano piano sulla scrivania quello con i capelli. Dentro c’era un foglio di carta bianca, un biglietto scritto con una stampante laser.

Se contatterete la polizia noi spariremo e non saprete mai che fine avrà fatto la bambina. Vi terremo d’occhio. Sapremo tutto. Abbiamo infiltrato uno dei nostri. Le vostre telefonate sono sotto controllo. Non parlate di questa faccenda al telefono. Sappiamo che tu, nonno, sei ricco. Vogliamo due milioni di dollari e vogliamo che ce li consegni tu, paparino. Tu, nonno, preparerai il denaro. Accludiamo a questo biglietto un cellulare, al quale è impossibile risalire. Ma se lo usate per telefonare a qualcuno lo sapremo, e allora scompariremo e non rivedrete più la bambina. Preparate il denaro e datelo a paparino. Tu, paparino, tieni sempre accanto a te i soldi e il cellulare. Vai a casa e aspetta. Ti chiameremo noi per dirti che cosa fare, ma se sgarri anche di poco non rivedrai più tua figlia. Non avrai una seconda possibilità.

La sintassi lasciava a dir poco a desiderare. Lessi il biglietto tre volte, poi alzai gli occhi su Edgar e Carson. Mi sentii invadere da una strana calma. Sì, ciò che avevo letto era terrificante… ma al tempo stesso, ricevere quel messaggio mi dava una specie di sollievo. Qualcosa era finalmente accaduto. Ora avremmo potuto muoverci. Potevamo riportare a casa Tara. C’era una speranza.

Edgar si alzò, dirigendosi verso un angolo della stanza. Poi aprì l’anta di un armadio, dal quale estrasse un borsone da ginnastica con il logo della Nike. «È tutto qui» mi disse, senza alcun preambolo.

Mi lasciò cadere in grembo il borsone e io vi posai sopra lo sguardo. «Due milioni di dollari?»

«Le banconote non hanno la serie in sequenza, ma per ogni evenienza abbiamo registrato tutti i numeri di serie.»

Guardai Carson, poi riportai lo sguardo su Edgar. «Non crede che dovremmo informare l’FBI?»

«Direi proprio di no.» Edgar si andò ad appoggiare contro il bordo della scrivania, con le braccia conserte. Profumava di colonia, ma sotto quel profumo avvertivo qualcosa di più primitivo, di più rancido. Da vicino si notavano le occhiaie provocate dalla spossatezza. «Deve deciderlo lei, Marc. È lei il padre. Noi rispetteremo ogni sua decisione. Ma, come sa, ho avuto a che fare con le autorità federali. Forse il mio giudizio su di loro non è equanime perché li considero degli incompetenti totali, o forse sono prevenuto perché ho potuto constatare fino a quale punto sono mossi da motivazioni personali. Se Tara fosse mia figlia, mi fiderei più del mio giudizio che del loro.»

Non sapevo che cosa dire o fare, ma mi venne in aiuto Edgar che batté una volta le mani e poi mi indicò la porta.

«Sul biglietto le chiedono di andare a casa ad aspettare. Credo che ci convenga obbedire.»

3

L’autista era sempre lo stesso. Scivolai sul sedile posteriore, con la borsa della Nike stretta al petto. Le mie emozioni rimbalzavano da una vile paura a uno stranissimo pizzico d’emozione. Avrei potuto riprendermi mia figlia. Ma avrei anche potuto mandare tutto a puttane.

Prima però la cosa più importante: dovevo avvertire la polizia?

Cercai di calmarmi, di esaminare la faccenda con freddo distacco, di vagliare i pro e i contro. Era impossibile, naturalmente. Sono un medico, ho già preso in passato decisioni che avrebbero potuto cambiare la vita di una persona e so che la maniera migliore è quella di sottrarre dall’equazione tutto ciò che costituisce un peso o un eccesso. Ma c’era in ballo la vita di mia figlia. Di mia figlia. Del mio mondo, per ritornare a ciò che dicevo all’inizio.

La casa che avevo comprato con Monica è letteralmente dietro l’angolo rispetto a quella dove vivevo da ragazzo e dove abitano tuttora i miei genitori. Un particolare, questo, che mi trova al tempo stesso favorevole e contrario. Non mi piace, cioè, abitare così vicino ai miei, ma nel contempo non sopporto l’idea di abbandonarli ancora di più. Il compromesso a cui eravamo giunti era quello di andare a vivere vicino a loro, ma di viaggiare molto.

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