«Dal giorno della sparatoria nessuno l’ha più vista» mi informò.
Chiusi gli occhi.
«Riteniamo che sua sorella non possa avere organizzato qualcosa del genere da sola» proseguì. «Di sicuro aveva un complice, un fidanzato, uno spacciatore, qualcuno al corrente del fatto che la famiglia di sua moglie è molto facoltosa. Ha qualche idea?»
«No. Quindi, secondo lei, il piano era rapire la bambina?»
Regan riprese a grattarsi il ciuffetto di barba sul mento, poi si strinse nelle spalle.
«Ma hanno cercato di uccidere me e mia moglie. Come si fa a chiedere un riscatto a dei morti?»
«Magari erano così pieni di droga che hanno commesso un errore. O forse pensavano di estorcere denaro al nonno di Tara.»
«E perché non l’hanno ancora fatto?»
Regan rimase in silenzio, ma la risposta la conoscevo. La pressione, specialmente dopo l’omicidio di Monica e il mio ferimento, sarebbe stata eccessiva per quei delinquenti strafatti di crack, gente che quando la situazione si complica non è in grado di cavarsela. Questo è proprio uno dei motivi per cui sniffano o si bucano, per fuggire, per svanire, per evitare i contatti, per tuffarsi in un universo bianco. I media avrebbero parlato del caso per molto tempo, la polizia avrebbe fatto indagini accurate e gli strafatti di crack non avrebbero resistito a una pressione del genere. Sarebbero fuggiti, avrebbero abbandonato tutto.
E si sarebbero disfatti di tutte le prove che avrebbero potuto incriminarli.
Ma due giorni dopo la richiesta di riscatto arrivò.
Ora che avevo ripreso conoscenza, stavo riacquistando le forze con sorprendente velocità. Forse perché ero concentrato sulla guarigione, oppure perché l’essere rimasto in stato semicatatonico per dodici giorni aveva dato alle ferite il tempo di guarire. Oppure, ancora, perché il dolore che mi attanagliava era ben più forte di quello che qualsiasi ferita fisica possa infliggere. Pensavo a Tara, e la paura dell’ignoto mi toglieva il respiro. Pensavo a Monica, me l’immaginavo morta sul pavimento, e artigli d’acciaio mi squarciavano le viscere.
Volevo andarmene.
Ero ancora dolorante, ma insistetti con Ruth Heller perché mi dimettesse. E lei, di fronte all’ennesima conferma del fatto che i medici sono i pazienti peggiori, mi diede controvoglia il permesso di tornarmene a casa. Mi fece promettere che avrei fatto venire ogni giorno un fisioterapista e, per maggiore sicurezza, che ogni tanto sarebbe passata a trovarmi un’infermiera.
La mattina che lasciai il St Elizabeth mia madre era andata a casa mia, cioè sulla scena del delitto, per “prepararla”: anche se non so bene che cosa intendesse fare. Io, stranamente, non avevo alcuna paura di tornarci. Una casa è solo calce e mattoni. Non pensavo che il semplice vederla avrebbe potuto emozionarmi, ma forse stavo soltanto cercando di prevenire l’emozione.
Lenny mi aiutò a fare la valigia e a vestirmi. È alto e forte, Lenny, e come Homer Simpson ha il viso inscurito dalla cosiddetta “ombra delle 17”, quel velo di barba che compare a quell’ora: solo che nel suo caso spuntava sei minuti dopo che aveva terminato di radersi. Da ragazzino portava occhiali da vista spessi come fondi di bottiglie di Coca-Cola e pantaloni di velluto a coste troppo stretti, anche d’estate. I suoi capelli ricci crescevano troppo in fretta, tanto da farlo somigliare a un barboncino randagio. Adesso i capelli li porta rigorosamente cortissimi. Due anni fa ha abbandonato gli occhiali grazie a un intervento oculistico con il laser. E si veste in modo raffinato.
«Sei sicuro di non voler venire a stare un po’ da noi?» mi chiese.
«Hai quattro bambini» gli ricordai.
«Già.» Fece una pausa. «Vuoi che venga io da te?»
Cercai di sorridere.
«No, davvero» riprese Lenny «non dovresti rimanere solo in quella casa.»
«Starò bene, non preoccuparti.»
«Cheryl ti ha preparato da mangiare per qualche giorno, troverai tutto nel freezer.»
«È stata gentile.»
«Ma è comunque la peggior cuoca del mondo.»
«Non ho detto che avrei mangiato quello che mi ha preparato.»
Lenny distolse lo sguardo, dandosi da fare con la valigia che era pronta da tempo. Lo osservai. Ci conosciamo da una vita, da quando frequentavamo la prima elementare con la maestra Roberts. Probabilmente, quindi, non si sorprese quando gli chiesi: «Mi vuoi dire che sta succedendo?».
Non vedeva l’ora di entrare in argomento e sfruttò subito l’occasione. «Senti, io sono il tuo avvocato. Giusto?»
«Giusto.»
«E allora voglio darti qualche consiglio legale.»
«Ti ascolto.»
«Avrei dovuto parlarti già da prima, ma sapevo che non mi avresti ascoltato. Ora… be’, direi che è proprio tutta un’altra storia.»
«Lenny?»
«Sì?»
«Ma cosa stai dicendo?»
Malgrado fosse diventato un uomo grande e grosso, io continuavo a vedere Lenny da ragazzino e quindi mi riusciva difficile ascoltare i suoi consigli con la dovuta serietà. Sia chiaro, so bene che è in gambissima, abbiamo festeggiato insieme quando fu ammesso a Princeton e, successivamente, alla Columbia Law School. Abbiamo superato insieme il test per l’ammissione al college e al terzo anno abbiamo frequentato lo stesso corso di Chimica. Ma il Lenny che vedevo era lo stesso con il quale correvo in auto su e giù per il corso principale nelle afose serate di venerdì e sabato. Partivamo con la station wagon dalla carrozzeria in legno di suo padre, non proprio l’auto più indicata per rimorchiare, e cercavamo di imbucarci alle feste. Ci facevano entrare semplicemente come membri di quella maggioranza dei liceali che chiamo “I Grandi Ignorati”, ma non eravamo mai i benvenuti. Ce ne stavamo in un angolo della sala, con una birra in mano, muovendo la testa al tempo di musica, cercando in tutti i modi di farci notare. Ma nessuno ci notava mai. Quasi sempre concludevamo queste serate facendoci un piatto di formaggio alla piastra all’Heritage Diner. Oppure, meglio ancora, ci andavamo a sdraiare sull’erba del campo di calcio dietro la Benjamin Franklin Middle School e guardavamo le stelle. Era più facile parlare, anche con il tuo migliore amico, guardando le stelle.
«Okay» disse Lenny, gesticolando come fa di solito. «La cosa allora funziona così: voglio che non parli più con i poliziotti se io non sono presente.»
Sollevai le sopracciglia. «Stai parlando seriamente?»
«Forse esagero, ma ho già visto casi del genere. Non come questo, cioè, insomma, hai capito che cosa voglio dire. Il primo a essere sospettato è sempre uno di famiglia.»
«Mia sorella, vuoi dire?»
«No, voglio dire un familiare stretto. O il più stretto, se possibile.»
«Mi stai dicendo che la polizia sospetta di me?»
«Non lo so, davvero non lo so.» Fece una pausa, ma molto breve. «Okay, sì, è possibile.»
«Ma mi hanno sparato, te lo ricordi? Ed è la mia bambina quella che si sono portati via.»
«Giusto. Ed è un’arma a doppio taglio.»
«In che senso, scusa?»
«Con il passare dei giorni finiranno per sospettare di te sempre di più.»
«Ma perché?»
«Non lo so, ma è così che funziona di solito. Stai a sentire, dei rapimenti si occupa l’FBI, lo sai anche tu, no? Dopo ventiquattro ore dalla scomparsa del bambino danno per scontato che si trovi in un altro Stato e iniziano le indagini.»
«E allora?»
«Per i primi dieci giorni o giù di lì hanno fatto venire un esercito di agenti, ti hanno messo i telefoni sotto controllo per intercettare la richiesta di riscatto, roba del genere insomma. Poi, l’altro giorno, hanno in pratica fatto fagotto, e questo naturalmente è abbastanza normale. Non possono aspettare all’infinito, e così hanno lasciato uno o due agenti. Hanno anche cambiato modo di ragionare, nel senso che per loro Tara non è più la vittima di un sequestro a scopo di estorsione ma di un sequestro e basta. Secondo me, però, i telefoni sono ancora sotto controllo: non gliel’ho chiesto, ma lo farò. Loro diranno che continuano a tenerli sotto controllo nel caso dovesse a un certo punto arrivare una richiesta di riscatto, ma sperano anche di sentirti dire al telefono qualcosa di compromettente.»
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