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Harlan Coben: Non hai scelta

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Harlan Coben Non hai scelta

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Marc Seidman ha tutto ciò che si può desiderare dalla vita: chirurgo plastico di successo, vive con la bella moglie e la figlioletta Tara di pochi mesi in una bella casa nei sobborgi di New York. Ma quando riprende conoscenza in una camera d’ospedale dove è stato ricoverato in fin di vita, Marc scopre con orrore d’aver subito un’aggressione durante la quale la moglie è stata uccisa e sua figlia è scomparsa senza lasciare traccia. Come se non bastasse Marc si ritrova ad essere il primo sospetto…

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Il secondo giorno dopo aver ripreso conoscenza mi svegliai trovando mamma accanto al letto.

«Te lo ricordi questo?» mi chiese.

Teneva in mano un pupazzo imbottito, Oscar il Brontolone, che qualcuno mi aveva regalato ai tempi della salmonella. Il verde era scolorito in un menta pallido. Lei guardò l’infermiera. «Questo è l’Oscar di Marc» le spiegò.

«Mamma…»

Riportò la sua attenzione su di me. La riga intorno agli occhi era un po’ troppo carica, quel giorno, al punto da incresparsi lungo le rughe. «Oscar ti ha tenuto compagnia quella volta, ricordi? Ti ha aiutato a stare meglio.»

Mi girai sul fianco e chiusi gli occhi. Un ricordo mi si affacciò alla memoria. Avevo preso la salmonella dalle uova crude che mio padre mi aggiungeva nel frullato per il loro contenuto proteico. Ricordo il terrore allo stato puro che mi aveva attanagliato quando mi dissero che avrei passato la notte in ospedale. Mio padre, che si era da poco rotto il tendine di Achille giocando a tennis, era ingessato e soffriva come un cane. Ma si accorse della mia paura e, come sempre, fu lui a sacrificarsi. Lavorava tutto il giorno in fabbrica e passava la notte in poltrona accanto al mio letto d’ospedale. Rimasi dieci giorni al St Elizabeth e lui dormì dieci notti su quella poltrona.

All’improvviso mamma mi diede le spalle e capii che stava ricordando la stessa cosa. L’infermiera si congedò in fretta. Posai una mano sulla schiena di mia madre, lei non si mosse ma la sentii rabbrividire. Abbassò lo sguardo sul pupazzo stinto che teneva in mano e io lentamente glielo tolsi.

«Grazie» dissi.

Lei si asciugò gli occhi. Papà, lo sapevo bene, questa volta non sarebbe venuto in ospedale e, anche se sono certo che mamma gli ha raccontato quello che mi è successo, non ho modo di sapere se lui abbia capito qualcosa. Mio padre ha avuto il primo ictus all’età di quarantun anni, l’anno dopo il mio ricovero per la salmonella. Io allora ne avevo otto.

Ho anche una sorella minore, Stacy, che “fa uso di sostanze stupefacenti” (secondo la versione politically correct ) o “è strafatta di crack” (se vogliamo essere più precisi). A volte mi capita di guardare quelle vecchie foto di papà prima dell’ictus, quelle nelle quali si vede la nostra giovane e fiduciosa famigliola costituita da padre, madre e due figli, con il cane a pelo lungo, il praticello ben curato, il canestro da basket, il barbecue stracarico di carbone troppo intriso di liquido infiammabile. Cerco qualche segnale del futuro di mia sorella nel suo sorriso sdentato, magari qualche aspetto in ombra della sua personalità, qualche triste presentimento. Ma non ne vedo. La casa l’abbiamo ancora, ma ormai assomiglia a una specie di set cinematografico in disuso. Papà è ancora vivo, ma da quando gli è preso il coccolone tutto è andato a puttane. Specialmente Stacy.

Stacy non è venuta a trovarmi, non ha nemmeno telefonato, ma ormai nulla di ciò che fa mi sorprende più.

Mìa madre si voltò finalmente a guardarmi. Strinsi ancora di più quello sbiadito Oscar e un pensiero mi colpì: eravamo rimasti ancora una volta noi due. Papà era praticamente un vegetale e Stacy si era come svuotata dentro, non c’era più. Allungai il braccio e strinsi una mano di mamma, avvertendone sia il calore sia il recente ispessimento della pelle. Rimanemmo così fin quando la porta si aprì e la solita infermiera fece capolino.

Mamma si raddrizzò immediatamente. «Marc giocava anche con le bambole» le disse.

«Con i pupazzetti» mi affrettai a correggerla. «Giocavo con i pupazzetti, non con le bambole.»

Ogni giorno passava a trovarmi anche il mio migliore amico, Lenny, insieme alla moglie Cheryl. Lenny Marcus è un avvocato di successo anche se si occupa delle mie piccole faccende, come quella volta che feci ricorso in seguito a una contravvenzione per eccesso di velocità oppure quando mi assistette per le pratiche legate all’acquisto della casa. Quando dopo la laurea si mise a lavorare per il procuratore della contea, amici e avversari lo soprannominarono subito “il bulldog”. Ma a un certo punto fu deciso che come soprannome era decisamente blando e ora lo chiamano “Cujo”. Conosco Lenny dai tempi delle elementari, sono il padrino di suo figlio Kevin e lui è il padrino di Tara.

Non ho dormito molto. La notte guardo il soffitto, conto ì secondi scanditi dall’orologio a muro e ascolto i rumori notturni dell’ospedale cercando in tutti i modi di non andare con la mente alla mia bambina, di non considerare le infinite possibilità. Non sempre ci riesco. La mente, mi sono accorto, è effettivamente una cupa fossa di serpenti.

Tornò a trovarmi il detective Regan, con una possibile pista.

«Mi parli di sua sorella» cominciò.

«Perché?» gli chiesi, troppo in fretta. Prima che potesse trarre delle conclusioni sbagliate sollevai una mano per bloccarlo. Avevo capito. Mia sorella era una tossica e dove girava la droga allignava un certo tipo di criminalità. «Siamo stati rapinati?» gli chiesi.

«Riteniamo di no, sembra che non manchi nulla, ma la casa è stata perquisita.»

«Perquisita?»

«Qualcuno ha buttato tutto per aria. Ha idea del perché?»

«No.»

«Mi parli di sua sorella.»

«Conoscete i precedenti di Stacy?»

«Sì, li conosciamo.»

«Non so che cosa potrei aggiungere.»

«Voi due non siete più in buoni rapporti, vero?»

In buoni rapporti. Lo siamo mai stati, io e Stacy? «Le voglio bene» dissi lentamente.

«Quando l’ha vista l’ultima volta?»

«Sei mesi fa.»

«Quando è nata Tara?»

«Sì.»

«Dove?»

«Dove l’ho vista, vuol dire?»

«Sì.»

«Stacy venne in ospedale.»

«A vedere la nipote?»

«Sì.»

«Che cos’è successo durante quella visita?»

«Stacy era fatta. Voleva tenere in braccio la bambina.»

«E lei non gliel’ha permesso?»

«Proprio così.»

«Sua sorella si è arrabbiata?»

«Non ha quasi reagito. Quando è fatta sembra assente.»

«Ma lei l’ha buttata fuori?»

«Le ho detto che non avrebbe dovuto avvicinarsi a Tara fino a quando non avesse detto addio alla droga.»

«Capisco» disse. «Sperava in tal modo di convincerla a disintossicarsi.»

Mi veniva da ridere. «No, non proprio.»

«Credo di non capire.»

Non sapevo come spiegarglielo. Pensai al sorriso di Stacy nella foto di famiglia, quella in cui le mancano i denti davanti. «Abbiamo fatto a Stacy minacce peggiori» gli dissi. «La verità è che mia sorella non si staccherà mai dalla droga, ormai fa parte di lei.»

«Quindi non ha speranze di recupero, dottor Seidman?»

Non l’avrei mai ammessa, una cosa del genere. «Diciamo che non mi piaceva che stesse accanto a mia figlia, mettiamola così.»

Regan si avvicinò alla finestra e guardò in basso. «Quando si è trasferito nella sua casa attuale?»

«Monica e io l’abbiamo comprata quattro mesi fa.»

«Non lontano dalla zona in cui siete cresciuti, vero?»

«Proprio così.»

«Vi conoscevate da molto?»

Quelle domande mi lasciavano perplesso. «No.»

«Anche se siete cresciuti nella stessa città?»

«Frequentavamo ambienti diversi.»

«Capisco. Per riepilogare, la casa l’ha comprata quattro mesi fa e sua sorella non la vede da sei, giusto?»

«Giusto.»

«Sua sorella, quindi, non è mai venuta a trovarvi nella nuova casa?»

«Proprio così.»

Regan si voltò a fissarmi. «Abbiamo rilevato in casa sua le impronte digitali di sua sorella.»

Non commentai.

«Non sembra sorpreso, Marc.»

«Stacy è una tossicomane. Non credo sia capace di spararmi e di rapire mia figlia, ma ho sottovalutato l’abisso nel quale è sprofondata. Siete andati a cercarla nel suo appartamento?»

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