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Harlan Coben: Non hai scelta

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Harlan Coben Non hai scelta

Non hai scelta: краткое содержание, описание и аннотация

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Marc Seidman ha tutto ciò che si può desiderare dalla vita: chirurgo plastico di successo, vive con la bella moglie e la figlioletta Tara di pochi mesi in una bella casa nei sobborgi di New York. Ma quando riprende conoscenza in una camera d’ospedale dove è stato ricoverato in fin di vita, Marc scopre con orrore d’aver subito un’aggressione durante la quale la moglie è stata uccisa e sua figlia è scomparsa senza lasciare traccia. Come se non bastasse Marc si ritrova ad essere il primo sospetto…

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La dottoressa Heller gli lanciò una rapida occhiata, poi riportò l’attenzione su di me.

«Che cos’è successo?» le chiesi.

«Le hanno sparato» rispose. «Due volte» aggiunse.

Tacque per darmi il tempo di assorbire la notizia. Guardai l’uomo appoggiato al muro, non si era mosso. Aprii la bocca per dire qualcosa, ma Ruth Heller proseguì. «Una pallottola le ha colpito di striscio la testa asportandole un lembo di pelle che, come lei saprà, in quella zona è incredibilmente ricca di vasi sanguigni.»

Sì, lo sapevo. Le ferite di una certa entità al cuoio capelluto sanguinano come se la vittima fosse stata decapitata. E questo, pensai, spiega il prurito al capo. Vidi Ruth Heller esitare e, in assenza di una spiegazione, glielo chiesi io. «E la seconda pallottola?»

Lei emise una specie di sospiro. «Questa è una storia un po’ più complicata.»

Attesi.

«La pallottola è penetrata nel torace perforando il sacco pericardico e provocando una forte emorragia. I paramedici non sono quasi riusciti a individuare i suoi parametri vitali, abbiamo dovuto spaccarle delle costole…»

«Dottore» intervenne l’uomo appoggiato alla parete, e per un attimo pensai che si fosse rivolto a me. Ruth Heller, visibilmente seccata, s’interruppe e quello si staccò dal muro. «Può rimandare a dopo i particolari? Non possiamo perdere tempo.»

Lei gli lanciò un’occhiataccia, ma di più non poté fare. «Rimarrò qui in osservazione, se per lei non è un problema» gli disse.

La dottoressa Heller si fece da parte e l’uomo si avvicinò guardandomi dall’alto. Aveva la testa troppo grossa rispetto alle spalle, al punto che per un attimo temetti che il collo potesse cedere sotto il suo peso. Aveva i capelli cortissimi, quasi rasati, fatta eccezione per la frangetta che gli ricadeva sulla fronte, come fosse un antico romano. Sul mento si era lasciato crescere una brutta chiazza di peli: sembrava un insetto che si scava la tana. Visto così, assomigliava a un componente di un gruppo musicale strafatto di roba. Mi sorrise, ma senza alcun calore umano. «Sono il detective Bob Regan, del Dipartimento di polizia di Kasselton» si presentò. «Comprendo il suo attuale stato di confusione.»

«La mia famiglia…» cominciai.

«Ci arriveremo» m’interruppe. «Ora però ho bisogno di farle qualche domanda, d’accordo? Prima di entrare nei particolari sull’accaduto.»

Rimase in attesa della mia risposta e io mi sforzai di squarciare le ragnatele. «Okay.»

«Qual è l’ultima cosa che ricorda?»

Passai in rassegna i compartimenti della mia memoria. Mi ricordai di essermi svegliato, quella mattina, e poi vestito. Ricordai di essere andato a controllare Tara. Ricordai di avere girato la manopola del suo finto cellulare bianco e nero, dono di un collega che sosteneva che avrebbe aiutato la bimba a sviluppare le capacità cerebrali o qualcosa del genere. Il cellulare non si era mosso né aveva belato la sua canzoncina metallica, segno che le batterie erano scariche, e avevo preso mentalmente l’appunto di sostituirle. Poi ero sceso al piano terra.

«Stavo mangiando una barretta di müsli» dissi.

Regan annuì, come se si aspettasse quella risposta. «Si trovava in cucina?»

«Sì, accanto al lavandino.»

«E poi?»

Mi sforzai di ricordare, ma inutilmente. Scossi il capo. «Mi sono svegliato una volta, di notte. Ero qui, penso.»

«Nient’altro?»

Ci riprovai ancora, senza risultato. «No, nulla.»

Regan tirò fuori un taccuino. «Come ha detto la dottoressa, le hanno sparato due volte. Non ricorda di avere visto un’arma o di avere udito un colpo di pistola, nulla del genere?»

«No.»

«È comprensibile, direi. Era conciato davvero male, Marc, quelli dell’ambulanza l’avevano già dato per morto.»

Mi sentii di nuovo la gola secca. «Dove sono Tara e Monica?»

«Mi ascolti, Marc.» Regan teneva lo sguardo abbassato sul taccuino, non su di me, e sentii il terrore invadermi il petto. «Ha sentito una finestra andare in frantumi?»

Ero intontito. Cercai di leggere l’etichetta sulla flebo per capire con che cosa mi stavano sedando. Niente da fare. Un antidolorifico, come minimo. Forse morfina per via endovenosa. Cercai di reagire. «No» risposi.

«Ne è certo? Abbiamo trovato una finestra rotta sul retro della casa, probabilmente è così che si è introdotto l’autore del reato.»

«Non ricordo nessuna finestra in frantumi. Lo sapete chi…»

Regan m’interruppe. «Non ancora, no. Per questo le sto facendo queste domande, per scoprire chi è stato.» Sollevò gli occhi dal taccuino. «Ha dei nemici?»

Davvero me l’aveva chiesto? Cercai di sedermi, di sollevarmi per mettermi alla sua altezza, ma non ci fu verso. Non mi piace fare il paziente, trovarmi cioè dalla parte sbagliata del letto. Dicono che i dottori siano i peggiori pazienti, e la spiegazione sta forse in questa improvvisa inversione di ruolo.

«Voglio notizie di mia moglie e di mia figlia.»

«Capisco.» Il tono di voce di Regan fu per me come un dito gelido sul cuore. «Ma non si può distrarre proprio adesso, Marc, non ancora. Lei vuole aiutarmi, vero? Allora deve rispondere alle mie domande.» Riportò la sua attenzione sul taccuino. «Le chiedevo, quindi, se ha dei nemici.»

Discutere con lui mi sembrava inutile se non addirittura dannoso, quindi, anche se controvoglia, lo assecondai. «Qualcuno che avrebbe potuto spararmi?»

«Sì.»

«No, nessuno.»

«E sua moglie?» Teneva gli occhi fissi su di me. E mi tornò in mente l’immagine di Monica che mi piaceva di più, del suo viso che si illuminava di fronte alle cascate di Raymondkill e di quel suo gettarmi le braccia al collo fingendosi terrorizzata per l’acqua che ci scrosciava attorno. «Aveva dei nemici?»

Lo guardai. «Monica?»

Ruth Heller fece un passo avanti. «Credo che per oggi possa bastare.»

«Che cos’è successo a Monica?» chiesi a Regan.

La dottoressa Heller si avvicinò al detective Regan, mettendoglisi accanto, e i due mi fissarono. Lei ricominciò a protestare, ma io la bloccai.

«Mi risparmi questa stronzata dell’interesse del paziente» cercai di gridare, mentre la paura e la rabbia lottavano contro ciò che mi aveva ottenebrato il cervello. «Ditemi che cos’è successo a mia moglie.»

«È morta» disse il detective Regan, senza girarci troppo attorno. Morta. Mia moglie. Monica. Era come se non l’avessi sentito, quella parola non ce la faceva ad arrivarmi al cervello.

«Quando la polizia ha fatto irruzione in casa vostra, vi ha trovato entrambi stesi a terra. Qualcuno vi aveva sparato. Sono riusciti a salvare lei, dottor Seidman, ma per sua moglie era ormai troppo tardi. Mi dispiace.»

Mi passò davanti agli occhi un altro velocissimo flash. Questa volta eravamo a Martha’s Vineyard, sulla spiaggia, Monica portava quel costume marrone chiaro e mi rivolgeva uno dei suoi sorrisi affilati come un rasoio mentre i capelli neri le schiaffeggiavano il volto. Battei le palpebre per allontanare quell’immagine. «E Tara?»

«Sua figlia…» cominciò Regan, schiarendosi in fretta la voce. Riportò lo sguardo sul taccuino, ma non credo che avesse intenzione di prendere appunti. «Era a casa quella mattina, vero? Voglio dire, all’ora dell’incidente?»

«Sì, certo. Dov’è?»

Regan richiuse di scatto il taccuino. «Quando siamo arrivati non c’era.»

I miei polmoni si fecero di pietra. «Non capisco.»

«All’inizio abbiamo sperato che fosse stata affidata a un parente o a degli amici. Una baby-sitter, magari, ma…» La voce gli si spense.

«Mi sta dicendo che non sapete dove si trova Tara?»

Questa volta nella sua voce non c’era la minima esitazione. «Proprio così.»

Fu come se la mano di un gigante mi premesse sul petto. Strinsi le palpebre e ricaddi all’indietro. «Da quando?»

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