Adesso fu Lenny a guardare l’ora. Mi sentivo vuoto dentro, mi pareva quasi di udire il ticchettio dell’orologio, credevo d’impazzire. Tentai nuovamente di riflettere con razionalità, di elencare i pro da una parte e i contro dall’altra e poi di tirare le somme. Ma il ticchettio non si fermava.
Lenny aveva parlato di calcolo delle probabilità ma io non gioco d’azzardo, non rischio. Dall’altro lato della strada una delle ragazze gridò: «Te lo sto dicendo!», poi si allontanò infuriata. L’altra si mise a ridere e montò in sella alla sua bici. Sentii che gli occhi mi si stavano riempiendo di lacrime. Quanto avrei voluto che ci fosse Monica con me: non l’avrei dovuta prendere da solo, quella decisione, avrebbe detto la sua anche lei.
Riportai lo sguardo sulla porta di casa, Regan e Tickner se ne stavano sulla soglia e il primo teneva le braccia conserte dondolandosi sui talloni. Tickner invece era sempre immobile, con il viso simile a un placido laghetto. A quei due uomini avrei dovuto affidare la vita di mia figlia? Avrebbero tenuto conto anzitutto della bambina oppure, come mi aveva ipotizzato Edgar, avrebbero seguito un loro schema preordinato?
Il ticchettio si faceva più rumoroso e insistente.
Qualcuno aveva ucciso mia moglie. Qualcuno si era preso la mia bambina. Negli ultimi giorni avevo continuato a chiedermi il perché, perché fosse successo proprio a noi, cercando sempre di rimanere razionale ed evitando prolungate incursioni nelle profondità dell’autocommiserazione. Non riuscivo a vedere alcun motivo e questo rendeva tutta la faccenda ancora più angosciante. Forse non c’era alcun motivo, forse si era trattato di pura e semplice sfortuna.
Lenny guardava davanti a sé e aspettava. Tic tac, tic tac.
Ruppi il silenzio. «Diciamoglielo.»
La loro reazione mi sorprese. Si spaventarono.
Regan e Tickner cercarono di nascondere la paura, naturalmente, ma a tradirli fu il linguaggio del corpo: i loro sguardi confusi, gli angoli della bocca serrati, quell’improvviso tono di voce eccessivamente modulato che faceva venire in mente un certo soft-rock delle radio private. La scadenza era troppo vicina, tutto qui. Tickner telefonò immediatamente all’FBI, chiedendo l’intervento dell’esperto di trattative nei sequestri di persona e parlando con la mano davanti alla bocca per non farsi sentire. Regan si mise subito in contatto con i suoi colleghi di Paramus.
«Ci saranno diversi agenti dell’FBI in zona» m’informò dopo avere attaccato. «Saranno discreti, ovviamente. Cercheremo di piazzare auto con a bordo altri uomini a ogni uscita della Route 17, in entrambe le direzioni. Altri colleghi saranno all’interno del centro commerciale, accanto alle entrate. Ora però mi stia a sentire attentamente, dottor Seidman. Gli esperti ci dicono di prendere tempo, forse dovremo convincere i rapitori a rimandare…»
«No.»
«Ma non scapperanno. Loro vogliono i soldi.»
«Mia figlia è con loro da quasi tre settimane e io non ho alcuna intenzione di rimandare.»
Annuì. La cosa non gli piaceva, ma lui continuava a sforzarsi di restare calmo. «Allora le metterò un uomo in macchina.»
«No.»
«Si accuccerà tra i sedili anteriori e quelli posteriori.»
«No» ripetei.
Tickner tentò un’altra tecnica. «Meglio ancora, diremo ai rapitori che lei non è in condizioni di guidare. L’abbiamo già fatto altre volte e lei, non dimentichiamolo, è appena uscito dall’ospedale. Metteremo al volante uno dei nostri e diremo che è suo cugino.»
Guardai cupo Regan. «Non mi aveva detto che potrebbe esserci di mezzo mia sorella?»
«È possibile, sì.»
«E non crede che lo saprebbe se quello al volante è mio cugino o no?»
Tickner e Regan esitarono un attimo, poi annuirono contemporaneamente. «Ha ragione» ammise Regan.
Lenny e io ci scambiammo un’occhiata. Quelli erano i professionisti in mano ai quali stavo mettendo la vita di mia figlia. Quel pensiero era tutt’altro che tranquillizzante. Mi diressi alla porta.
Tickner mi prese per la spalla. «Dove sta andando?»
«Lei dove diavolo crede che stia andando?»
«Si sieda, dottor Seidman.»
«Non c’è tempo. Devo muovermi, potrebbe esserci traffico.»
«Il traffico possiamo deviarlo.»
«E questo non li insospettirebbe?»
«Dubito molto che la seguiranno da qui.»
Mi voltai di scatto. «E lei rischierebbe la vita di sua figlia basandosi su una probabilità del genere?»
Lui tacque, per troppo tempo.
«Lei non capisce» proseguii, questa volta guardandolo in faccia. «Non me ne frega niente dei soldi, non me ne frega niente se la faranno franca. Voglio solo mia figlia.»
«Questo l’abbiamo capito, ma lei sta dimenticando una cosa.»
«Che cosa?»
«Si sieda, la prego.»
«Senta, mi faccia un favore, non mi dica di sedermi. Sono un medico e so anch’io come si prepara la gente alle brutte notizie. Quindi lasci stare.»
Tickner sollevò le palme delle mani. «Come vuole.» Fece un lungo, profondo sospiro. Anche quella era una tattica per guadagnare tempo, ma io non ero dell’umore adatto.
«Allora?» gli chiesi.
«Chi ha rapito sua figlia, dottor Seidman, è lo stesso che le ha sparato e che ha ucciso sua moglie.»
«Lo so.»
«E invece credo di no. Ci pensi su un attimo. Non possiamo lasciarla andare da solo perché quelli hanno già cercato di ucciderla, le hanno sparato due volte pensando di averla uccisa.»
Si avvicinò anche Regan. «Marc, prima le abbiamo esposto qualche teoria. Il problema è proprio questo, si tratta soltanto di teorie. Non sappiamo che cosa voglia veramente quella gente. Forse si tratta solo di un sequestro, ma in tal caso sarebbe un sequestro anomalo.» Non aveva più il piglio da interrogatorio, sostituito da un’espressione di finta franchezza. «Quello che sappiamo per certo è che hanno cercato di ucciderla. E non si uccidono i genitori del bambino che si è rapito se si vuole chiedere il riscatto.»
«Forse pensavano di far pagare il riscatto a mio suocero.»
«Perché allora aspettare tanto?»
Non sapevo che cosa rispondere.
«Forse non si tratta proprio di un sequestro» proseguì Tickner. «Almeno all’inizio non pensavano a un sequestro, l’idea potrebbe essergli venuta sul posto. Forse, voglio dire, i veri bersagli eravate fin dall’inizio lei e sua moglie. E magari vogliono portare a termine il lavoro.»
«Crede quindi che si tratti di una trappola?»
«Esiste una seria possibilità, sì.»
«Che cosa mi consiglia, allora?»
Tickner assunse quel suo particolare tono di voce. «Non vada da solo, ci dia del tempo per poterci preparare adeguatamente. Li faccia richiamare.»
Guardai Lenny. Lui se ne accorse e annuì. «Non è possibile» disse.
Tickner lo fissò seccato. «Con tutto il rispetto, il suo cliente sta correndo un grave pericolo.»
«Anche mia figlia» gli feci notare. Parole semplici. Una decisione semplice, per la quale non occorreva riflettere molto. Mi diressi alla mia auto. «Tenga i suoi uomini a distanza.»
Non c’era traffico e quindi arrivai al centro commerciale con notevole anticipo. Spensi il motore, mi sistemai contro lo schienale del sedile e mi guardai attorno. Immaginai che poliziotti e federali fossero appostati in zona, ma non riuscii a vederli. Una buona cosa, pensai.
E ora?
Non avevo idea. Aspettai ancora. Accesi la radio passando da una stazione all’altra, ma non c’era nulla che m’interessava. Premetti il pulsante delle cassette e dei CD. Quando Donald Fagan, degli Steely Dan, attaccò Black Cow sentii un leggero brivido. Non ascoltavo quella cassetta dai tempi del college, probabilmente. Come mai Monica ce l’aveva? E poi, con un nuovo brivido, realizzai che era stata Monica l’ultima a prendere l’auto e che quella era forse l’ultima canzone che aveva ascoltato.
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