Via Katenin piacque molto a Erast Petrovič. Aveva punto per punto lo stesso aspetto delle vie più rispettabili di Berlino o di Vienna: asfaltata, fanali elettrici nuovi, palazzi vistosi a più piani. In una parola, l’Europa.
Palazzo Sivers, con quei cavalieri di pietra sul frontone e l’ingresso bene illuminato sebbene la sera fosse ancora chiara, era particolarmente bello. E in che altro posto poteva mai abitare un uomo come Ivan Franzevič Brilling? Era del tutto impossibile immaginarlo in una qualche decrepita palazzina dal cortile polveroso e il giardinetto di meli.
Un servizievole cameriere tranquillizzò Erast Petrovič dicendogli che il signor Brilling era a casa, «era arrivato cinque minuti prima». Quel giorno a Fandorin andava tutto liscio, gli riusciva proprio tutto.
Salendo a due gradini per volta volò al primo piano e suonò il campanello elettrico lucidato fino a brillare come oro.
La porta l’aprì Ivan Franzevič in persona. Non aveva ancora fatto in tempo a cambiarsi, si era tolto solo la giacca, ma sotto l’alto colletto inamidato riluceva come un arcobaleno di smalto una croce di San Vladimiro piuttosto recente.
«Capo, sono io!» dichiarò gioiosamente Fandorin, godendosi l’effetto.
L’effetto a dire il vero superò ogni aspettativa.
Ivan Franzevič restò di stucco e agitò perfino le braccia, quasi a voler dire: «Santo, santo! Vade retro, Satana!»
Erast Petrovič scoppiò a ridere: «Che c’è, non mi aspettavate?»
«Fandorin! Ma da dove mi spuntate?! Ormai avevo perso la speranza di vedervi fra i vivi!»
«E perché mai?» chiese il viaggiatore non senza una certa civetteria.
«Ma come!… Siete scomparso senza lasciare traccia. L’ultima volta siete stato visto a Parigi il ventisei. A Londra non siete andato. Ho chiesto di Pyžov — mi hanno risposto che è scomparso senza lasciare traccia, la polizia lo cerca!»
«Vi ho spedito da Londra una lettera dettagliata indirizzata all’investigativo di Mosca. Lì vi dico di Pyžov, e di tutto il resto. Deve arrivare se non oggi domani. Non sapevo che eravate a Pietroburgo.»
Il capo si accigliò preoccupato: «Ma che faccia avete. Non vi sarete mica ammalato?»
«A dire il vero, ho una fame spaventosa. Sono stato di guardia tutto il giorno all’ufficio postale, non ho messo in bocca niente di niente.»
«Di guardia all’ufficio postale? Nonnò, non raccontatemi nulla. Facciamo così. Prima vi offro il tè con i pasticcini. Il mio Semen, quella canaglia, sono tre giorni che è ubriaco, così che in casa me la sbrigo da solo. Mi nutro soprattutto di cioccolatini e dei dolci di Filippov. A voi i dolci piacciono, vero?»
«Tantissimo», confermò calorosamente Erast Petrovič.
«Anche a me. Mi è rimasto dalla mia infanzia di orfano. Non fa nulla se andiamo in cucina, da scapoli?»
Mentre passavano dal corridoio, Fandorin fece in tempo a notare che l’appartamento di Brilling, sebbene non tanto grande, era arredato in modo molto pratico e ordinato — il necessario c’era tutto, ma di superfluo nulla. Suscitò un grande interesse nel giovane soprattutto una scatoletta laccata con due tubi neri di metallo che era appesa al muro.
«Questo è un vero prodigio della scienza contemporanea», spiegò Ivan Franzevič. «Si chiama ‘apparecchio di Bell’. L’hanno appena portato dall’America, dal nostro agente. Lì c’è un inventore geniale, tale mister Bell, grazie al quale adesso è possibile conversare a una distanza considerevole, fino a un certo numero di chilometri. Il suono viene trasmesso attraverso dei cavi simili a quelli del telegrafo. Questo è un modello sperimentale, la produzione degli apparecchi non è ancora iniziata. Nell’intera Europa ci sono solo due linee: una va dal mio appartamento fino alla segreteria del direttore della Terza sezione, la seconda è stata impiantata a Berlino fra il gabinetto del Kaiser e la cancelleria di Bismarck. Così non ci facciamo lasciare indietro dal progresso.»
«Stupendo!» esclamò con entusiasmo Erast Petrovič. «E si sente bene?»
«Non troppo, ma si capisce. A volte nella cornetta c’è molto fruscio… E se invece del tè vi dessi un’aranciata? Io non me la cavo troppo bene col samovar.»
«Mi andrebbe bene eccome», rispose Erast Petrovič tranquillizzando il capo, e Brilling, come un mago benefico, gli mise davanti sul tavolo di cucina una bottiglia di aranciata e un piatto pieno di bignè, cestini alla crema, meringhe e cornetti ricoperti di mandorle.
«Servitevi», disse Ivan Franzevič, «intanto io vi aggiorno sui nostri affari. Poi sarà il vostro turno di confessare.»
Fandorin annuì a bocca piena, con il mento spolverato di zucchero a velo.
«Così», iniziò il capo, «a quanto ricordo, siete partito per Pietroburgo per prendere la posta diplomatica il ventisette di maggio? Subito dopo da noi sono iniziati degli eventi interessanti. Mi sono rammaricato di avervi lasciato partire; mi sarebbe tornato utile ogni singolo uomo. Attraverso i miei agenti sono riuscito a chiarire che un po’ di tempo fa a Mosca si è formato un piccolo gruppo, però molto attivo, di rivoluzionari radicali, completamente pazzi. Se i normali terroristi si pongono il compito di sterminare ‘chi ha le mani macchiate di sangue’, ovvero i maggiori funzionari di Stato, questi hanno deciso di darsi a coloro che ‘se la spassano e chiacchierano a vuoto’.»
«Chi?» chiese Fandorin che, distratto da un morbidissimo bignè, non aveva capito.
«Be’, c’è una poesiola di Nekrasov, ‘Dalla schiera di coloro che se la spassano chiacchierando a vuoto, le mani macchiate di sangue, portami in quella di coloro che muoiono per la grande causa dell’amore’. E così, i nostri ‘morituri per la grande causa dell’amore’ si sono fatti una specialità.
All’organizzazione principale sono toccate ‘le mani macchiate di sangue’ — ministri, governatori, generali. Mentre la nostra frazione di Mosca ha deciso di occuparsi ‘di quelli che se la spassano’, che sono ‘grassi e sazi’. Come siamo riusciti a chiarire attraverso un agente infiltrato nel gruppo, la frazione ha preso il nome di ‘Azazel’ — una loro smargiassata blasfema. È stata pianificata una intera serie di assassinii fra la jeunesse dorée, i ‘parassiti’ e i ‘libertini’. Ad Azazel è affiliata anche la Bežezkaja, che a quanto pare è emissario di un’organizzazione anarchica internazionale. Il suicidio, di fatto l’omicidio di Petr Kokorin, da lei organizzato, è stata la prima azione di ‘Azazel’. Be’, della Bežezkaja, suppongo, mi parlerete anche voi. La vittima successiva è stato Achtyrzev, che interessava ai congiurati ancora più di Kokorin, in quanto nipote del cancelliere principe Korčakov. Vedete, mio giovane amico, il progetto dei terroristi era folle, ma al tempo stesso diabolicamente ben calcolato. Hanno considerato che arrivare ai rampolli delle personalità importanti è molto più semplice che non arrivare a queste stesse personalità, mentre il colpo inferto alle gerarchie dello Stato non ne risulta per questo meno dirompente. Il principe Michail Aleksandrovič, per esempio, è talmente distrutto dalla morte del nipote, che ha quasi smesso di occuparsi delle sue faccende e sta pensando seriamente di ritirarsi. E questo è un uomo più che benemerito, che ha determinato non poco la fisionomia della Russia contemporanea.»
«Che scellerataggine!» disse indignato Erast Petrovič, e allontanò perfino una meringa che non aveva finito di mangiare.
«Quando sono riuscito a chiarire che fine ultimo dell’attività di ‘Azazel’ era l’uccisione del principe ereditario…»
«Non è possibile!»
«Ahimè, è possibile eccome. Così, quando si è chiarito questo, ho ricevuto l’ordine di prendere misure decisive. Mi sono visto costretto a ubbidire, anche se avrei preferito chiarire prima il quadro completo. Ma, lo capirete da soli, quando la vita stessa di sua altezza imperiale sembra appesa a un filo… Abbiamo condotto l’operazione, ma non è venuta molto ben congegnata. Il 1° giugno i terroristi hanno fissato una riunione in una dacia di Kuzminki. Ricordate, ve ne avevo già parlato… È vero che allora voi eravate preso dalla vostra idea. Allora? Avete scoperto qualcosa?»
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