«Allora facciamo così», disse Erast Petrovič aggrottando la fronte, stropicciandosi stancamente gli occhi. «Di aiutarmi non ce n’è bisogno — e uno. Spiegare non ti spiegherò nulla — e due. Far fuori Amalia, andrebbe bene, ma non vorrei che laggiù facessero fuori te — e tre. E non ti sono affatto rivale, quella lì mi disgusta dal più profondo dell’anima — e fa quattro.»
«Allora magari la cosa migliore è spararle», disse impensierito Zurov. «Addio, Erasm. Se Dio lo vorrà, ci rivedremo.»
Dopo gli sconvolgimenti notturni la giornata di Erast Petrovič, in tutta la sua intensità, risultò in certo qual modo sgangherata, come composta di frammenti separati, male connessi gli uni agli altri. Come se Fandorin avesse riflettuto, e avesse preso decisioni meditate, e avesse perfino agito, ma tutto questo fosse accaduto come da sé, al di fuori di uno scenario comune. L’ultima giornata di giugno restò impressa nella memoria del nostro eroe come una serie di quadri brillanti, fra i quali si aprivano dei vuoti.
Ecco la mattina, la riva del Tamigi nel quartiere dei docks. Un tempo calmo, c’è il sole, l’aria è fresca dopo la tempesta. Erast Petrovič è seduto sul tetto di latta del tozzo magazzino con indosso la sola biancheria. Accanto sono disposti i vestiti bagnati e gli stivali. Il gambale di uno stivale è scucito, al sole asciugano il passaporto aperto e le banconote. I pensieri dell’uomo uscito dalle acque si confondono, cambiano direzione, per tornare invariabilmente al binario principale.
Loro pensano che io sia morto, mentre invece sono vivo — e uno. Loro pensano che nessuno al mondo sappia di loro, ma io lo so — e due. La cartella è perduta — e tre. Nessuno mi crederà — e quattro. Mi chiuderanno in manicomio — e cinque…
No, ancora una volta. Loro non sanno che sono vivo — e uno. Smettono di cercarmi — e due. Prima che notino l’assenza di Pyžov, passerà del tempo — e tre. Adesso mi è possibile passare dall’ambasciata e inviare un messaggio cifrato al capo- e quattro…
No. All’ambasciata non si può. Cosa succede se laggiù fra i Giuda non c’era solo Pyžov? Amalia viene a saperlo, e ricomincia tutto daccapo. Questa storia insomma non si può confidare a nessuno. Solo al capo. Qui non va bene nemmeno un telegramma. Ne trarrebbe la conclusione che impressionato dall’Europa Fandorin è rimasto tocco di mente. Spedire una lettera a Mosca? Questo sarebbe possibile, però arriverebbe in ritardo.
Come fare? Come fare? Come fare?
Oggi secondo il calendario di qui è l’ultimo giorno di giugno. Oggi Amalia traccerà una linea sotto la sua contabilità del mese di giugno, e partirà per Pietroburgo il pacchetto indirizzato a Nicholas Croog. Per primo cadrà il consigliere effettivo di Stato, benemerito, con bambini. Lui vive là, a Pietroburgo, lo raggiungono in quattro e quattr’otto. Piuttosto stupido da parte loro, scrivere da Pietroburgo a Londra, per ricevere di nuovo la risposta a Pietroburgo. Costi di produzione della congiura. È evidente che le filiali dell’organizzazione segreta non sanno dove si trova lo Stato maggiore. A meno che lo Stato maggiore non si sposti da un paese all’altro… Adesso si trova a Pietroburgo, ma fra un mese sarà da qualche altra parte ancora. O magari non è uno Stato maggiore, ma una sola persona? Chi, Croog? Sarebbe troppo semplice, ma questo Croog bisogna arrestarlo con il pacchetto.
Come fermare il pacchetto?
Non c’è verso. È impossibile.
Alt. Fermarlo non si può, però lo si può anticipare! Quanti giorni ci mette la posta fino a Pietroburgo?
La scena successiva accade alcune ore dopo, nello studio del direttore del distretto postale centro-orientale della città di Londra. Il direttore è lusingato — Fandorin si è presentato come un principe russo — e lui lo chiama prince e Your Highness, pronunciando il titolo con soddisfazione non celata. Erast Petrovič indossa un elegante soprabito da mattino e tiene in mano un sottile bastone, senza il quale un vero principe è impensabile.
«Mi dispiace molto, prince, ma la vostra scommessa sarà perduta», spiega già per la terza volta il direttore postale al poco perspicace russo. «Il vostro paese è membro dell’Alleanza postale mondiale istituita due anni fa, che unisce 22 Stati con una popolazione di più di 350 milioni di persone. In questo spazio vigono gli stessi regolamenti e tariffe uniche. Se una lettera viene spedita da Londra oggi, 30 giugno, con la posta espressa, non c’è modo che voi possiate arrivare prima: esattamente sei giorni dopo, la mattina del 6 luglio, si troverà all’ufficio postale di Pietroburgo. Be’, non il 6, ma che giorno sarebbe secondo il vostro calendario?»
«Perché la lettera ci sarà e io no?» chiede il «principe» che non riesce a farsene una ragione. «Non volerà mica sull’aria!»
Con espressione grave il direttore gli spiega: «Vedete, vostra altezza, i pacchetti con il timbro ‘espresso’ vengono inviati senza un minuto di indugio. Supponiamo che voi saliate alla stazione di Waterloo sullo stesso treno col quale viene spedita una lettera espressa. A Dover prendete lo stesso vaporetto. A Parigi, alla Gare du Nord, anche lì arrivate insieme.»
«E allora cosa c’è che non va?»
«Questo non va», dice trionfante il direttore, «che non esiste nulla di più veloce della posta espressa! Al vostro arrivo a Parigi, a voi tocca trasferirvi sul treno per Berlino. Bisogna comprare il biglietto, che non avete prenotato in anticipo. Bisogna trovare un cocchiere e attraversare l’intero centro fino all’altra stazione. Bisogna aspettare il treno per Berlino, che parte una volta al giorno. Adesso torniamo al nostro espresso. Dalla Gare du Nord, lungo la ferrovia circolare, raggiunge su uno speciale vagone postale a mano il primo treno che parte in direzione orientale. Potrebbe anche non essere un treno passeggeri, ma un merci con vagone postale.»
«Ma io potrei fare lo stesso!» esclama eccitato Erast Petrovič.
«Magari da voi in Russia è anche permesso, ma non in Europa. Mmm, supponiamo, un francese si può anche comprare, ma quando si tratterà di cambiare a Berlino non otterrete nulla: in Germania i funzionari postali e ferroviari sono noti per la loro incorruttibilità.»
«Possibile sia tutto perduto?» esclama in russo Fandorin, finalmente giunto alla disperazione.
«Come avete detto, scusate?»
«Così ritenete che ho perso la mia scommessa?» chiede abbattuto il «principe», tornando all’inglese.
«E a che ora è partita la lettera? Del resto, non ha importanza. Se anche voi vi precipitaste da qui direttamente alla stazione, sarebbe comunque tardi.»
Le parole dell’inglese ebbero un effetto magico sull’aristocratico russo.
«A che ora? Ma certo! Oggi è ancora giugno! Morbid prenderà le lettere solo alle dieci di sera! Il tempo che lei ricopia… E dovrà pure cifrare! È chiaro che non le spedisce direttamente così, le lettere, con il testo normale. Per forza lo deve cifrare, come no! E questo vuol dire che il pacchetto partirà soltanto domani! E arriva non il sei, ma il sette! Secondo il nostro calendario, il 25 di giugno! Ho un giorno di vantaggio!»
«Non ci capisco niente, prince», disse il direttore allargando le braccia, ma ormai Fandorin non era più nel suo ufficio; la porta gli si era appena richiusa alle spalle.
Lo inseguono queste parole: «Your Highness, il vostro bastone!… Oh, questi boiari russi!»
Eccoci, finalmente, alla sera di questa giornata piena di fatiche come di una nebbia fitta, eppure tanto importante. Le acque della Manica. Sul mare gli eccessi dell’ultimo tramonto di giugno. Il vaporetto Duke of Gloucester segue la rotta per Dunkerque. Fandorin sta in prua come un vero britannico: berretto, vestito a quadretti e mantella scozzese. Guarda sempre in avanti, verso la costa francese, che si avvicina tormentosamente piano. Erast Petrovič non si è voltato nemmeno una volta a guardare le gessose scogliere di Dover.
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