Si allontanarono dal centro di Mosca e si diressero verso l’aperta campagna. Dopo alcune ore di viaggio l’auto imboccò una strada sterrata. Quindi percorsero ancora pochi chilometri ad andatura più lenta finché giunsero nei pressi di un enorme portone di ferro battuto, a due ante, di colore verde scuro. Dall’esterno non si riusciva a vedere granché perché la vista era impedita da un poderoso muro di cinta, sormontato da filo spinato e telecamere di sicurezza. Al cancello furono fermati da due uomini in borghese armati di kalashnikov. Ordinarono ad entrambi di abbassare i finestrini dell’auto e chiesero i loro documenti.
«Grigory ti muovi a far aprire questo cazzo di cancello o dobbiamo stare qui tutta la notte», urlò Irina con tono beffardo.
«Sei la solita stronza», rispose la guardia, facendo un cenno con la mano verso la telecamera in alto sul muro.
Il cancello si spalancò magicamente, come se una mano invisibile avesse premuto un bottone. Irina, agitata e impaziente per quell’attesa imprevista, prima che fosse completamente aperto, premette violentemente il piede sull’acceleratore. L’auto si avviò velocemente verso l’interno, sollevando una grossa nuvola di polvere che investì e colorò di bianco i due poveretti fermi all’entrata. Grigory e il suo collega non poterono fare altro che guardare in cagnesco l’auto che si allontanava nel viale.
Ormai era già quasi buio e centinaia di piccole luci illuminavano lo splendido parco che l’auto attraversava rapidamente, come un coltello nel burro. Mentre proseguivano nella tenuta lo sguardo di Aleksej venne attratto dall’imponente struttura che si stagliava in fondo alla strada.
«Bello vero?», domandò Irina sporgendosi con la testa fuori dal finestrino dell’auto. «Lo senti questo profumo? Non è» magnifico? La primavera…, la mia stagione preferita. Non vedo l’ora di tornare a Roma per tuffarmi di notte nella fontana di Trevi o per mangiare un gelato a Trinità dei Monti, seduta sulla scalinata di Piazza di Spagna».
Aleksej la guardò divertito e, indicandone con il dito la direzione, le chiese: «Cos’è quello? È un castello ottocentesco? A chi apparteneva?».
«Domande… sempre domande… per quello che ne so era una vecchia residenza degli zar, probabilmente requisita ai tempi della rivoluzione bolscevica e poi messa a disposizione dell’SVR, che qui ha realizzato la sua Accademia. Ma non farti abbagliare dalla sua bellezza, noi questo posto lo chiamiamo il Covo». Sorrise soddisfatta, intuendo di aver risposto in modo brillante.
«Il Covo?», replico Aleksej, «perché questo strano nome?
«Non so perché gli hanno dato questo nome. C’era già prima che arrivassi e fossi reclutata nell’SVR. Probabilmente è stato creato e voluto come rifugio segreto. Il posto dov’è possibile ideare e organizzare attività illecite che in qualunque altra parte della Russia sarebbero perseguite. Comunque resteremo qui solo una settimana e sarò io stessa ad addestrarti e prepararti per la missione in Italia. Ti trasformerò in una perfetta spia». All’improvviso si mise a ridere come se pregustasse i tormenti che avrebbe inferto alla sua nuova vittima.
«Immagino che non mi libererò facilmente di te», commentò pensieroso Aleksej.
«Puoi ben dirlo… mio caro collega… puoi ben dirlo», replicò strafottente Irina.
La Porche si fermò davanti all’ingresso del castello con uno stridere di freni sulla ghiaia. Altre due guardie armate erano posizionate ai lati della splendida scalinata che li avrebbe condotti all’interno. Entrarono e si avviarono verso un grande salone dove sembrava che il tempo si fosse fermato. Tutto profumava d’antico: dal pavimento di legno, ai quadri, al mobilio, ai lampadari.
«Bellissimo questo postò», esclamò Aleksej, «non si direbbe proprio un covo di spie».
Irina non lo degnò di uno sguardo perché la sua attenzione adesso era rivolta verso Kostja Skubak che veniva loro incontro dalla direzione opposta.
«Ciao Irina… Maggiore…, finalmente siete arrivati. Collega per oggi il tuo compito è finito. Da qui in poi mi occuperò personalmente del Maggiore Marinetto. Questi sono gli ordini di Petrov. Sei libera di andare».
Irina, stranamente, si congedò dai due senza dire una parola e si allontanò irosa sbattendo, con notevole frastuono, i piedi sul pavimento. Le sue scarpe, con tacco da dodici, più che un accessorio di abbigliamento sembravano un’arma micidiale, se e quando fosse stata costretta ad usarle. Aleksej la seguì con lo sguardo fin dove poté. Camminava sinuosa nei suoi jeans attillati e pensò che avesse uno splendido corpo. Ma era pur sempre una spia e di quelle temibili. Improvvisamente poteva trasformarsi in un cobra reale, di quelli che quando mordono non ti lasciano scampo. Decise che, forse, sarebbe stato più saggio e salutare starle alla larga.
9
Skubak si dimostrò insolitamente gentile e affettato. Si comportò come se avesse ricevuto ordini perentori e precisi dall’alto. Era l’ospite più importante del «Covo» e doveva trattarlo con ogni riguardo, senza però perderlo di vista nemmeno per un istante. In caso di guai seri le conseguenze sarebbero state disastrose per la sua carriera di spia.
Salirono al primo piano e Aleksej fu fatto alloggiare in una bellissima suite. «Spero tu sia contento della sistemazione, Aleksej. Sai…, si sussurra che la zarina Caterina ricevesse i suoi amanti proprio in questa camera».
«È tutto splendido. Grazie. Tranne per la guardia armata alla porta. Ma capisco che dobbiate essere prudenti, in fondo sono l’ultimo arrivato e devo ancora conquistarmi la fiducia del capo».
Skubak lo guardò divertito. Lo conosceva da troppo poco tempo ma capiva che in quelle frasi c’era una sottile vena d’ironia. L’esperienza gli consigliava, comunque, di diffidare del Maggiore. A pelle non gli piaceva affatto e poi aveva quell’aria da furbetto, un po’ troppo per i suoi gusti. Sapeva che alla fine, in un modo o nell’altro, avrebbe regolato con lui tutti i conti.
«Aleksej, ti consiglio di riposare un po’. Come puoi vedere… sul letto ci sono tutte le tue cose… quello è il bagno con tanto di vasca e doccia. Qualcuno verrà ad avvertirti quando sarà il momento della cena». Skubak lo salutò frettolosamente e si dileguò fuori dalla stanza come se qualcuno lo stesse aspettando da qualche altra parte.
Aleksej non ebbe neppure il tempo di sistemare il contenuto della sua piccola valigia quando sentì bussare alla porta.
«Toc toc. Posso entrare?».
Una voce suadente reclamava il suo diritto d’accesso.
«Entra pure Irina», rispose con tono seccato Aleksej, «sono ancora vestito. Non temere».
«Ciao Aleksej o dovrei chiamarti Luca», disse ironicamente mostrando il suo splendido sorriso.
«Ti ho portato la cena. Servizio in camera. Non conosco ancora i tuoi gusti culinari e così ho messo insieme un po’ di tutto. Ho qui anche il dessert e un buonissimo spumante italiano. Dovrai cominciare a godere dei piaceri della vita… nelle tue vene scorre pur sempre sangue italiano».
Appoggiò il vassoio sul tavolo vicino alla finestra e cercò di avvicinarsi ad Aleksej che era rimasto immobile, in piedi, al lato del letto.
«Non sono dell’umore adatto per festeggiare e, comunque, non ho fame. Se sei venuta fin qui per sedurmi allora puoi girare i tacchi e tornare da dove sei venuta», replicò contrariato Aleksej.
«Ehi… ma che modi. In Accademia non ti hanno insegnato ad essere gentile con l’altro sesso? Volevo solo esserti amica ma adesso mi accorgo di aver sbagliato. Comunque, che ti piaccia o no, nei prossimi mesi dovremo condividere molte cose insieme, compreso lo stesso letto. Dovrai farci l’abitudine. Ho poco tempo per farti diventare il perfetto sostituto di Luca, tuo fratello. Dovrai essere credibile se non vorrai farti scoprire immediatamente».
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