Roberto Borzellino - Russian Spy. Operazione Bruxelles

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Aleksej è un giovane ufficiale presso l’Accademia militare di San Pietroburgo. Figlio unico di mamma russa e padre italiano, diventerà, suo malgrado, la spia russa più ricercata del pianeta. Riuscirà a portare a termine la sua difficile missione tra Mosca, Roma e Bruxelles? Tra omicidi, tradimenti e colpi di scena e con un finale imprevisto ed emozionante, al protagonista resterà un unico desiderio: la vendetta!!

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Russian Spy

Operazione Bruxelles

Roberto Borzellino

© Roberto Borzellino, 2022

ISBN 978-5-0055-9368-9

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CAPITOLO PRIMO

San Pietroburgo

1

«Shaibu, shaibu», gridò Aleksej, mentre uno stridere di pattini sul ghiaccio faceva da sottofondo. Un colpo di mazza violento e il disco nero colpì rapido il suo bersaglio.

«Bravi!! Continuate così… ancora più veloci… pattinare e colpire forte».

«Aleksey… possiamo fermarci un attimo… siamo esausti» – replicò Nikita – completamente sudato sotto l’imbracatura da portiere di hockey. A guardarlo da lontano sembrava un marziano, con la maschera che gli copriva il viso ed i guantini troppo grandi per reggere il bastone. Doveva difendere la porta dagli attacchi ripetuti dei compagni di squadra, ma la sua mente era altrove, distratto com’era dal gruppetto di splendide ragazze che osservavano da bordo pista.

«Ragazzi venite qui al centro della pista… devo parlarvi» ordinò urlando Aleksej, intenzionato a farsi sentire da tutti i componenti della squadra, anche da quelli che erano più lontani. Tutti, all’unisono, si misero a pattinare velocemente e formarono un cerchio intorno al loro capitano.

«Che sia chiaro per tutti… ci restano solo poche settimane per il torneo di hockey interforze e… da quello che vedo… non siamo ancora pronti. Se i miei metodi di allenamento non vi vanno bene… allora lamentatevi con il Generale Govorov. Ma sapete già come andrà a finire… quindi niente storie e riprendete a pattinare alla svelta. Tu… Nikita… un rapporto da me al termine dell’allenamento».

«Sì… signor Maggiore» – mentre Nikita mettendosi sugli attenti faceva il saluto militare.

Anche con la maschera si poteva notare il suo sorriso e la leggera ironia con cui aveva pronunciato quella frase. Sapeva che poteva contare sulla grande amicizia che lo legava ad Aleksej e non lo preoccupava più di tanto doversi presentare un rapporto dal suo superiore. Nikita spesso aveva abusato di questa sua posizione privilegiata. Arrivava quasi sempre in ritardo agli aggiudicati ed era il primo a lamentarsi ea sotto la doccia.

Aleksej l'aveva preso a ben voler fin dal suo arrivo in Accademia e si era preso cura di lui. Era il più piccolo del gruppo ma aveva un carattere eccezionale, sempre di buon umore e con la battuta pronta in ogni circostanza. Tra l'altro era anche un ottimo portiere e Aleksej lo spronava sempre a migliorarsi. Credeva in lui. Raccontava a tutti che se si fosse impegnato sul serio aveva la stoffa per diventare il migliore portiere che l'Accademia avesse mai avuto negli ultimi dieci anni.

«Bene così… tutti a fare la doccia» – disse il Generale Govorov – soddisfatto per l’impegno mostrato in allenamento dai suoi ragazzi.

Li aveva osservati per tutto il tempo dagli spalti del Palazzo del Ghiaccio di San Pietroburgo.

«Avete solo trenta minuti» – proseguì con tono perentorio il Generale – il nostro bus ci aspetta nel parcheggio e non ammetto nessun ritardo».

Prima di dirigersi verso l’uscita della struttura prese Nikita per un braccio: «Per oggi basta con gli scherzi o neanche il tuo capitano potrà salvarti da una punizione esemplare!!». Subito dopo lanciò un sorriso di complicità verso il suo sottoposto: il Maggiore Aleksej Robertovic Marinetto.

Il cognome di Aleksej tradiva le sue evidenze origini italiane. Aveva già compiuto 25 anni e fin da bambino era stato scelto per frequentare l'Accademia Militare per cadetti di Orenburg, negli Urali meridionali, a circa 1.200 chilometri da Mosca. Era un'accademia molto prestigiosa alla quale venivano ammessi solo figli e nipoti della nomenclatura russa. Aleksej poteva vantare tale diritto in quanto suo nonno era un generale in pensione. Al tempo della vecchia Unione Sovietica era stato un esponente di rilievo del disciolto KGB, il servizio segreto russo.

Aleksej aveva fatto carriera con rapidità sorprendente fino a raggiungere il grado di Maggiore dell’esercito carriera con orgoglio ad amici e parenti. Da qualche anno era in pianta stabile presso l’Accademia Militare di San Pietroburgo, dove ricopriva il ruolo di capitano e assistente allenatore della squadra di hockey della scuola. Il suo capo e mentore, il Generale Aleksandr Nikolaevic Govorov, era stato membro della «squadra degli invincibili», la compagine che per anni aveva stravinto i giochi invernali di hockey per l’URSS. Solo una macchia indelebile aveva condizionato la sua incredibile carriera di hockeista, dalla quale non seppe più riprendersi e che segnò il suo ritiro dalle gare. Lo feriva ancora il ricordo di quei XIII Giochi Olimpici Invernali di Lake Placid (USA) dove la sua squadra fu battuta in semifinale dagli USA, all’epoca formata solo da studenti universitari e dilettanti. Fu uno scacco incredibile per la «squadra degli invincibili». Alla fine riuscirono comunque a vincere la medaglia d’argento ma per anni si parlò solo del «miracolo sul ghiaccio» da parte degli americani, con tanto di film hollywoodiani sul tema.

2

L’autobus era pronto sul piazzale, con il motore acceso, in attesa dell’arrivo dei cadetti. Tutti furono puntuali e salirono con ordine per sedersi nei posti loro assegnati, seguiti dagli sguardi severi del Maggiore Alexej e del Generale Govorov. L’ultimo ad arrivare fu Nikita che, come al solito, si prese uno scappellotto dal suo comandante. Fuori l’aria era ancora umida per la pioggia caduta incessantemente e tutti si misero ad osservare dai finestrini l’imminente tramonto del sole. Era uno spettacolo incredibile. La sfera arancione stava per arrendersi alle prime luci della sera e improvvisamente sparì con il suo bagliore dietro enormi palazzoni grigi. Govorov prese posto accanto al suo vice allenatore e dopo alcune parole di circostanza, sul morale della squadra e la preparazione atletica, improvvisamente si fece serio e cambiò tono alla conversazione.

«Aleksej… domani mattina alle 9.00 devi presentarti dal Comandante, Generale Sherbakov, per comunicazioni urgenti che ti riguardano. Mi è stato detto di riferirti questo messaggio di persona perché non volevano che passassi per la solita trafila burocratica».

Il Maggiore rimase per un attimo pensieroso e poi tentò di azzardare una richiesta: «Generale» – disse timidamente – «posso farle una domanda personale?».

«Certamente», rispose Govorov, «chiedi pure».

«Da bambino il nonno mi raccontava che quando si ricevono messaggi di questo tipo… alquanto insoliti… allora c’è da temere per la propria carriera o peggio… per la propria vita».

Il Generale scoppiò in una fragorosa risata che mise in imbarazzo Aleksej.

«Maggiore… può dire a suo nonno che i sistemi del KGB sono finiti ormai da tempo. Stia pur tranquillo… al massimo sarà trasferito ad altro incarico… forse addirittura a Mosca», replicò con tono pacato e sorridente. Il Generale sapeva molto di più di quello che diceva ma Aleksej non volle insistere; con la sua curiosità aveva già osato abbastanza. In fondo doveva aspettare solo poche ore per conoscere i particolari di quella strana convocazione avvenuta fuori dai canoni ufficiali.

In ogni caso un senso di agitazione lo assalì durante tutto il tragitto fino all’Accademia, anche se cercò di mascherare il disagio mantenendo il suo solito contegno. Desiderava non insospettire gli altri commilitoni e voleva evitare qualunque tipo di domanda. Inoltre non era il tipo di uomo che si lasciava andare a facili confidenze, nemmeno con i suoi amici più stretti e fidati. Cenarono alla mensa degli ufficiali e Nikita, come al solito, non fu parco di scherzi e battute.

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