Maria fece una pausa, come a visualizzare meglio i suoi ricordi, e poi riprese.
«Con tuo padre litigammo quella stessa sera».
«Gli dissi che non avevamo scelta. Dovevamo collaborare con il KGB oppure la nostra vita sarebbe stata un inferno. Ma tuo padre fu irremovibile. Non volle sentire ragioni. Quando si fu calmato studiammo insieme una strategia, una via d’uscita. Dovevamo attenderci una immediata reazione da parte dei vertici del KGB, sicuramente ci avrebbero spedito tutti insieme in qualche campo di lavoro in Siberia. Dovevamo proteggervi. Capisci figlio mio… l’unica soluzione possibile era solo la fuga perché molto presto a tuo padre avrebbero revocato il visto».
«Quella sera preparammo i bagagli e ci recammo tutti insieme all’aeroporto ma era già troppo tardi: al controllo passaporti fummo fermati e identificati. L’ufficiale della dogana ci guardò con cipiglio e disse perentorio che solo tuo padre e un figlio potevano imbarcarsi sull’aereo per Roma. Io non avrei mai potuto lasciare la Russia. Aveva ordini tassativi al riguardo. Ci lasciò solo un minuto per pensare, diversamente ci avrebbe arrestati tutti. Io e tuo padre fummo costretti a decidere in fretta. Tu tenevi stretta la mia mano mentre Luca dormiva nelle braccia di Roberto. Fu il destino a scegliere per noi. Ci abbracciamo forte e ci baciammo come se quella fosse stata la nostra ultima volta. Ed in effetti così avvenne».
Maria tirò un sospiro di sollievo, come se si fosse liberata di un enorme macigno che la opprimeva da ormai da troppo tempo.
Aleksej, che era rimasto in silenzio per tutto il tempo, prese le mani di sua madre e le strinse nelle sue. Poi con dolcezza le disse:” Ora finalmente conosco tutta la verità. Ora capisco tutto. Ho un fratello identico a me. Incredibile… e tutto così assurdo… pazzesco. Ho sempre saputo che nascondevi un grande segreto sulla nostra famiglia, ma poi e poi mai avrei immaginato tutto questo».
Aleksej abbracciò forte la mamma e le mise la testa sul petto; poi cominciò a coccolarla, accarezzandole i lunghi e biondi capelli. Maria aveva quasi cinquant’anni ma nonostante l’età sembrava ancora giovane, con un bel fisico e un portamento regale. Spesso il figlio si divertiva a prenderla in giro e le diceva che da giovane avrebbe potuto fare la modella. La mamma stava al gioco e tutto si concludeva con una sonora risata.
Adesso erano lì, insieme, in silenzio, seduti sul divano, ognuno immerso nei propri pensieri, nei ricordi.
Maria guardava il figlio con tenerezza e quello sguardo infuse nuovo coraggio ad Aleksej.
Dolcemente le sollevò la testa dal petto per poterle parlare e confidare il suo segreto: «Mamma devo dirti anch’io una cosa importante. È una questione militare ma sò che di te mi posso fidare. Domani mattina presto prenderò un aereo per Mosca. Mi hanno trasferito, ma ancora non conosco l’esatta destinazione. Magari Mosca è solo una stazione di transito. Ho paura che mi mandino in qualche remota regione della Russia, forse oltre gli Urali o proprio in quella Siberia di cui tu e mio padre avevate così tanta paura.»
Un velo di tristezza calò sullo sguardo di Maria, come se invitasse il figlio a leggere nei suoi pensieri. Non aveva un‘espressione di sorpresa ma, al contrario, sembrava che conoscesse già tutto in anticipo. Quello sguardo non ammetteva fraintendimenti e Aleksej si rivolse alla mamma con un misto di agitazione e rassegnazione.
«Mamma… ma tu lo sapevi? Com’è possibile? Sono stato informato dal mio Comandante solo da poche ore».
«Caro Aleksej, sono pur sempre la figlia di un Generale del KGB. Cosa credi che non abbia anch’io le mie fonti d’informazione. Io ti ho sempre protetto e ti proteggerò sempre, ovunque tu sia…, ovunque tu vada. Ma non preoccuparti, la tua destinazione finale è Mosca e non la Siberia». Poi gli sorrise e con un cenno della mano fece segno al figlio di seguirla in cucina.
«Siediti che ti preparo il the con il miele. I tuoi biscotti preferiti li ho appena sfornati.»
Solo allora Aleksej annusò il forte odore dei biscotti provenire dal forno. Era un profumo che gli ricordava l’infanzia ma il trambusto di quella giornata sembrava che avesse spento all’improvviso il suo senso olfattivo. L’atmosfera in casa si era rasserenata ed entrambi continuarono a parlare, finalmente liberi dai segreti, uno accanto all’altro.
5
L’auto sobbalzò e Aleksej, ancora semi addormentato per l’alzataccia mattutina, aprì improvvisamente gli occhi e scrutò fuori dal finestrino. Una pioggerellina stava liberando le sue lacrime e ogni goccia scivolava rapidamente sui vetri per far posto ai nuovi arrivi.
«Maggiore Marinetto», esclamò l’autista, «siamo quasi arrivati in aeroporto e tra due minuti saremo all’entrata delle partenze».
Era la voce dell’attendente del Generale Sherbakov. Aveva avuto il compito di accompagnare Aleksej a Pulkovo, addirittura con la Mercedes C220 nera del comandante. Era un grande privilegio e il Maggiore ne era consapevole ma, nonostante tutte le accortezze, i suoi timori per quel viaggio inaspettato rimasero inalterati.
«Grazie tenente Cjukov, si fermi pure qui a lato» rispose cortese, trattenendosi dal fare il saluto militare, poi lo congedò con una semplice stretta di mano e un semplice grazie. Con il suo minuscolo bagaglio si diresse in direzione del check-in per Mosca. Gli era stato ordinato di vestirsi in abiti civili e di portare con sé solo lo stretto necessario. E così aveva fatto. A Mosca avrebbe trovato qualcuno ad attenderlo ma non conosceva né il suo nome né il suo grado.
«Probabilmente sarà qualche giovane attendente», pensò Aleksej, mentre disciplinatamente si metteva in fila con gli altri passeggeri. Era decisamente preoccupato ma doveva mascherare bene quel suo stato d’animo e comportarsi come un comune cittadino russo. In quella strana circostanza era necessario che abbandonasse la sua proverbiale aria marziale che lo faceva sentire così ridicolo senza la divisa addosso.
«Volo S7022 per Mosca, affrettarsi all’imbarco», gracidò una voce gentile dagli altoparlanti della sala d’aspetto. Aleksej ancora non sospettava che quella sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe visto la sua amata S. Pietroburgo. Gli era stato concesso troppo poco tempo e non era riuscito a salutare tutti gli amici e i compagni di hockey. Forse anche per questo si sentiva stranamente triste e vuoto.
Il volo fu breve e tranquillo, senza nessun incontro strano o particolare da segnalare. Si diresse verso l’uscita dell’aeroporto Domodedovo e si fermò davanti alla lunga fila di taxi gialli che, disciplinatamente, aspettavano l’arrivo dei clienti. Con lo sguardo scrutò in ogni direzione ma del suo contatto nemmeno l’ombra. «Il mio attendente dev’essere in ritardo» pensò Aleksej mentre guardava impaziente l’orologio. Non poteva fare altro che aspettare perché gli era stato ordinato di non allontanarsi dall’uscita, per nessun motivo.
Improvvisamente si accorse di un uomo che gli veniva incontro con le braccia allargate. Aveva stampato sul volto un sorriso e l’aria di chi sembrava conoscerlo da tempo.
«Aleksej, amico mio, come stai? Finalmente sei arrivato», disse lo sconosciuto con voce stucchevole. Lo strinse forte a sé e gli sussurrò all’orecchio: «Stai al gioco e seguimi senza fare domande, forse siamo sorvegliati».
Aleksej restò completamente immobile, era sorpreso, imbambolato e fece in tempo a farfugliare solo poche e incomprensibili parole: «ma tu chi…».
Lo strano tipo prese il piccolo bagaglio dalle sue mani e lo posò nel retro dell’auto; quindi lo invitò a salire sul davanti e insieme partirono a gran velocità per destinazione ignota.
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