Roberto Borzellino - Russian Spy. Operazione Bruxelles

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Aleksej è un giovane ufficiale presso l’Accademia militare di San Pietroburgo. Figlio unico di mamma russa e padre italiano, diventerà, suo malgrado, la spia russa più ricercata del pianeta. Riuscirà a portare a termine la sua difficile missione tra Mosca, Roma e Bruxelles? Tra omicidi, tradimenti e colpi di scena e con un finale imprevisto ed emozionante, al protagonista resterà un unico desiderio: la vendetta!!

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Quando si furono allontanati abbastanza Aleksej si voltò verso quell’improbabile accompagnatore e con piglio deciso e altero gli disse: «Allora, razza di idiota, mi dici finalmente cos’è questa pagliacciata e dove siamo diretti?».

«Si calmi Maggiore Marinetto», rispose a tono lo sconosciuto, «lasci che mi presenti. Maggiore Kostja Maksimovic Skubak, dell’SVR di Mosca. Sono un agente dei Servizi con il compito di accompagnarla a destinazione». Tirò fuori dalla giacca un tesserino e lo appoggiò sul cruscotto dell’auto.

Aleksej prese tra le mani il documento e cominciò ad osservarlo. Non era un esperto in contraffazione ma quello gli sembrava proprio originale o, quanto meno, un’ottima imitazione. Lo restituì a Skubak accompagnando il gesto con una smorfia di disapprovazione.

«Servizi segreti…?», replicò irritato, «questa dev’essere sicuramente opera di mio nonno Andrej. Ma gli dica che deve rassegnarsi perché sa benissimo che non ho nessuna simpatia per voi. Disapprovo i vostri metodi da nazisti per cui è inutile che proviate a reclutarmi.» Poi, col tono perentorio di chi è abituato a comandare e impartire ordini, concluse: «Accosti e mi faccia scendere. Immediatamente.»

«Abbia pazienza ancora per trenta minuti e poi tutto le sarà più chiaro» lo incalzò Skubak. «Siamo diretti alla sede centrale dell’SVR. Il direttore Petrov in persona la sta aspettando. Li capirà ogni cosa e avrà tutte le risposte alle domande che le frullano in testa. Ma fino a quel momento la prego di mettersi comodo e di rilassarsi. La strada è ancora lunga e devo essere certo che nessuno ci segua fino al nostro arrivo».

Infilò la mano destra sotto il sedile di guida e rimase alcuni secondi a frugare come se stesse cercando qualcosa di importante, facendo comunque attenzione a non perdere di vista le auto che lo precedevano. Quando ebbe finito rimise a posto il tappetino e mostrò soddisfatto ad Aleksej un pacchetto di sigarette già aperto e pieno a metà.

«Vecchie abitudini caro collega… dure a morire…, ma sto cercando di smettere di fumare. Comunque puoi chiamarmi Kostja. Qui da noi siamo informali e prevedo che trascorreremo diverso tempo insieme nelle prossime settimane».

«Lo escludo categoricamente… collega…», lo incalzò Aleksej con ironia, «questa sera sarò già sul primo volo per San Pietroburgo. Non ho intenzione di seguire le orme di mio nonno e certamente non desidero diventare una spia. Se con questo becero espediente sperava che ci cascassi allora si è sbagliato di grosso. Glielo dica pure quando lo vede».

«Vedremo… vedremo…» lo incalzò Kostja sorridendo, «ma credo che lo incontrerai molto presto, così potrai dirglielo tu, di persona, direttamente in faccia».

A quell’ora Mosca era già caotica e immersa nel traffico mattutino. Un timido sole primaverile provava a farsi strada, tra enormi nubi, con tutta la forza dei suoi raggi. Proseguirono dritti verso il centro, lungo via Tverskaja, poi svoltarono repentinamente in una delle tante stradine laterali, ma troppo velocemente perché Aleksej potesse leggerne l’indirizzo. Dopo alcune centinaia di metri l’auto si fermò nei pressi di un grande palazzone color giallo ocra, con tante finestre messe insieme una accanto all’altra e con i vetri oscurati. All’apparenza sembrava un classico edificio amministrativo, ma in realtà era la sede dell’SVR di Mosca, l’ex KGB.

«Siamo arrivati» esclamò Kostja, «per favore seguimi senza fare scenate e ti prometto che avrai le risposte che stai cercando da tutta una vita. Qui sei al sicuro, addirittura meglio che al Cremlino».

6

Giunti all'ingresso Aleksej fu accolto da un imponente stemma color marrone. Aveva la forma circolare con al centro una grande stella a cinque punte. Un piccolo globo blu brillante al suo interno. La scritta, in cirillico, ne annunciava pomposamente il nome – Služba Vnešnej Razvedki Rossisnoj Federazi(Servizio di Intelligence Internazionale della Federazione Russa).

Superarono il metal detector e mostrarono i documenti alle due guardie. Erano entrambi disarmati. Ricevettero i badge per accedere al settimo piano dove li sarebbe il direttore Petrov. Filarono in tutta fretta verso uno dei tre ascensori e presero quello meno affollato. Giunti al piano, svoltarono alla loro sinistra e si avviarono per un lungo corridoio.

Il pavimento era di marmo massiccio, di colore bianco lucido, intarsiato da piccole strisce nere con un tappeto rosso ruggine che ne copriva il centro per tutta la sua lunghezza.

Aleksej notò un grande andirivieni di uomini e donne. Camminavano nervosamente da una parte all'altra del corridoio, entravano e uscivano da varie stanze, con in mano fascicoli e pile di documenti. Il quel trambusto nessuno li degnò di uno sguardo né di un saluto, come se fossero stati invisibili.

«Questi gli uffici della Sezione I. Sono gli analisti che si sono delle informative quotidiane per i nostri agenti all’estero. Non preoccuparti… ci fari l’abitudine. Sembra che siano immersi nel caos ma ti assicuro che sono efficienti e super organizzati. Comunque non è qui che siamo diretti». Con il pollice della mano destra Kostja indicò in alto, come per dire: dobbiamo salire ancora. Fecero pochi scalini e si ritrovarono su di un piano ammezzato. Alle fine si fermarono davanti ad una grande e massiccia porta di abete con la scritta Dipartimento S. – Direttore Petrov».

Kostja bussò con vigore e dall’interno risuonò una voce gentile: «Avanti, prego, accomodatevi».

«Ciao Silvya», esordì sorridendo, «come vedi siamo puntuali. Immagino che il direttore Petrov ci stia aspettando».

Aleksej non poté fare a meno di notarla: era una graziosa ragazza bionda, capelli corti a caschetto e grandi occhi marroni. Aveva un trucco leggero e pensò che potesse avere, più o meno, la sua età. Li aveva accolti con un sorriso di circostanza ma il suo sguardo freddo e glaciale tradiva una certa tensione.

«Puntualissimo Kostja. Il Direttore vi sta aspettando. Entrate pure», replicò Silvya decisa, senza aggiungere altro. Aleksej diresse lo sguardo nell’angolo in alto del soffitto dov’era posizionata una piccola telecamera.

Solamente adesso intuiva perché la ragazza era rimasta seduta per tutto il tempo e non si era alzata per andare loro incontro. Aveva la mano destra ancora poggiata sulle gambe, segno inequivocabile che impugnasse una pistola. Dal loro arrivo al piano terra erano stati seguiti passo passo dalle telecamere a circuito chiuso. In un’altra stanza, lì vicino, dovevano esserci degli altri agenti armati, pronti ad intervenire in caso di necessità, a protezione della sicurezza del loro capo.

Entrarono e si fermarono al centro della stanza. Il direttore Fyodor Ivanovic Petrov era in piedi, girato di spalle, mentre guardava fuori dalla finestra. Era un uomo già oltre la cinquantina, della vecchia scuola del KGB. Aveva superato indenne il periodo di transizione e adesso comandava l’importante Dipartimento S dei servizi segreti russi. Capelli rasati a zero, occhiali da vista tondi da intellettuale, di aspetto longilineo, quasi magro, indossava un doppio petto grigio dal taglio sartoriale impeccabile. Tutti lo rispettavano e fin dal primo sguardo sapeva incutere timore.

«Buongiorno direttore», esordì Kostja dirigendosi lentamente verso la finestra, «le ho portato il Maggiore Marinetto… come richiesto. Nessun imprevisto da segnalare, anche se all’inizio il nostro ospite ha mostrato una qualche resistenza. Ma era facilmente prevedibile considerata la segretezza della sua convocazione».

Petrov girò lentamente il capo in direzione dei nuovi arrivati con una smorfia di approvazione. Sembrava che fosse rimasto in piedi a lungo, probabilmente preoccupato per la lunga attesa. Poi si voltò completamente e, dopo aver spostato la sua poltrona di pelle nera, appoggiò entrambe le mani sulla grande scrivania di mogano.

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