Emilio Salgari - Gli ultimi flibustieri
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– Che storie ci narrate, taverniere? – chiese l’ufficiale. – Io ho conosciuto quel signore e vi posso garantire che è un buon cattolico, poiché il marchese di Montelimar non prende ai suoi servigi degli eretici.
– Il marchese di Montelimar! – esclamò don Barrejo. – Chi è?
– Alto là, taverniere, – rispose l’ufficiale. – Voi non avete il diritto di conoscere i segreti della polizia di Panama.
– Allora beviamo.
Il guascone stava per empire i bicchieri, quando sotto terra si udirono dei rumori indistinti e tuttavia non meno impressionanti. Pareva che delle persone martellassero delle lastre di ferro, mentre altre si divertivano a trascinare catene o ferravecchi.
L’ufficiale, i due alabardieri e Panchita erano balzati in piedi, mentre don Barrejo si lasciava cadere su una sedia, mandando un sospirone che avrebbe intenerito perfino i sassi.
– Chi produce questo baccano? – chiese l’ufficiale, sfoderando la sua spada.
– È l’anima dell’uomo che voi cercate, ve l’assicuro io, – disse don Barrejo. – L’ho scorto nella mia cantina.
– Volete burlarvi di noi, taverniere?
– Burlarvi!… Andiamo dunque a vedere!… Siamo in quattro e bene armati e anche mia moglie, se vuole, sa maneggiare benino il spiedo.
Il guascone aveva pronunciate quelle parole con tanta gravità che le guardie della ronda erano rimaste non poco impressionate. Quella storia di diavoletti nella cantina e la scomparsa misteriosa, assolutamente inesplicabile per loro che ignoravano come fossero andate le cose, cominciava a seccarli moltissimo.
L’ufficiale vuotò un bicchiere pieno di vecchia Malaga, che doveva fargli girare non poco la testa, poi, asciugandosi i baffi col dorso della mano, disse con voce grave, volgendosi verso i due alabardieri:
– Noi dobbiamo compiere il nostro dovere, camerati, e riportare al signor marchese il corpo o l’anima di quel signore che è venuto qui a bere.
“Vuotate anche voi un altro bicchiere per farvi animo e andiamo a vedere che cosa succede nella cantina di questa taverna.
“ Por Dios !… Siamo uomini d’armi!…”
– Panchita!… – gridò don Barrejo. – Prendi lo spiedo tu e porta un altro lume.
– Ne avevi già uno quando sei sceso nella cantina, – rispose la castigliana.
– L’ho lasciato cadere quando mi è sembrato di vedere lo spettro dell’uomo biondo.
– Tu finirai per diventare un don Fracassa, marito mio.
– I miei malanni li pagano i meticci che vengono qui a bere il mezcal , tu già lo sai.
“Siamo pronti? A me il lume e, corpo d’un cannone!… voglio battagliare cogli spettri se realmente si sono rifugiati nella mia cantina.
“Signor ufficiale, vi prego di starmi molto vicino. Sapete… io non sono un uomo d’armi e non ho maneggiato fino ad oggi altro che bottiglie.”
– Ci siamo noi, – rispose il capo della ronda, a cui pareva che la vecchia Malaga avesse dato un gran colpo alle gambe. – Siete pronti, alabardieri?
– Sí, signore, – risposero i due soldati, i quali non si trovavano in migliori condizioni.
– Partiamo e non diamo quartiere né ai diavoli, né ai folletti, né ai fantasmi. Caramba !… Metteremo a soqquadro la cantina della taverna d’ El Moro .
Ed i tre poliziotti, pieni di ardore pel troppo vino bevuto, si mossero, preceduti da don Barrejo il quale reggeva la lampada ed impugnava fieramente la sua fida draghinassa e seguiti dalla bella castigliana armata d’un formidabile spiedo.
Capitolo III. LA CACCIA AI FANTASMI
I quattro uomini, ben decisi a liberare la cantina della taverna d’ El Moro dall’anima dell’uomo biondo e scialbo, poiché ormai anche nell’animo delle guardie era nato il convincimento che fosse qualche demonio, s’impegnarono nella lunghissima scala, la quale contava non meno di una cinquantina di giardini.
Scesi però i dieci primi gradini, don Barrejo credette opportuno di fare una breve sosta e di trinciare, colla sua draghinassa, una gran croce.
Come se i fantasmi si fossero subito accorti di quel segno cristiano, ripresero a martellare ferramenta ed a trascinare catene, sbattendole contro le botti, e producendo cosí un fracasso veramente infernale.
L’ufficiale e le due guardie avevano rimontato sollecitamente qualche gradino, urtando la bella castigliana, la quale teneva ben alto lo spiedo.
– Signor ufficiale, – disse il guascone, simulando un grande spavento. – Volete lasciarmi solo alle prese coll’anima di quell’uomo misterioso?
– No, no, prendo solamente un po’ di fiato, – rispose l’altro, il quale era pallidissimo.
– Dovevate bere qualche gocciolo ancora, prima di avventurarvi in queste catacombe.
– È vasta dunque la vostra cantina?
– Io non sono mai riuscito a percorrerla tutta. Si dice che finisca nell’ossario del cimitero di città.
– Brrr!… – fece l’ufficiale. – Non potevate trovare di peggio.
– Si dice, però io non ho mai potuto verificare questo.
– Io non vorrei possedere una simile cantina, mio caro taverniere, rispose l’ufficiale.
Le guardie doppiamente impressionate da quella rivelazione che non s’aspettavano, esitarono un poco prima di riprendere la discesa.
Se si fosse trattato di misurarsi con degli indios bravos o con dei filibustieri, senza dubbio avrebbero fatto bravamente il loro dovere, senza farsi pregare, ma quella storia di spettri che già si facevano udire e di ossari, metteva nel loro animo uno sgomento d’altronde perdonabile in quei tempi.
– Andiamo, dunque? – Chiese don Barrejo, il quale faceva tremolare la lampada per simulare un crescente spavento. – Qui bisogna prendere il coraggio a due mani, caramba .
– Fate lume, – rispose l’ufficiale. – Mi pare che la vostra mano oscilli troppo.
– Canarios !… Sono dinanzi a tutti e sarò il primo a venire acciuffato e portato all’inferno o nell’ossario. Pensate che io ho una moglie e bellina per di piú.
– Mostrate dunque il vostro coraggio dinanzi a lei.
– Se è per Panchita, scendo subito ed accoppo tutti gli spiriti che infestano la mia cantina, – rispose il guascone, il quale frenava a gran pena le risa.
Rialzò la lampada, tracciò in aria un altro segno della croce e, quantunque nella cantina si udissero sempre sbatacchiare catene contro le botti e di quando in quando degli ululati che parevano uscire dalle gole di lupi arrabbiati, riprese animosamente la discesa, non senza biascicare delle ave marie. Giunto al venticinquesimo gradino, ossia quasi alla metà, il guascone tornò a fermarsi.
– Signor ufficiale, – disse con voce alterata. – Le mie gambe non mi reggono piú.
– Non vi mostrate un poltrone dinanzi a vostra moglie, – rispose il capo della ronda. – Qualcuno bisogna bene che vada innanzi e voi solo siete pratico di questa cantina.
“E poi non siamo noi qui, pronti ad appoggiarvi?”
– E non udite questi rumori?
– Non sono sordo.
– Da che cosa credete che provengano?
– Lo sapremo quando saremo giunti abbasso. Orsú, taverniere, un po’ di coraggio ed impugna ben salda la tua draghinassa.
– E se ci fossero veramente dei fantasmi? – disse una delle due guardie, con un certo tremolío nella voce. – Sapete bene, capo, che non si uccidono.
– E che le alabarde passerebbero attraverso ai loro corpi, come in mezzo ad una nube di fumo, – aggiunse l’altra.
– Noi non li abbiamo ancora veduti, – rispose l’ufficiale. – Se compariranno davvero… vedremo che cosa converrà fare.
– Sí darcela a gambe al piú presto, – disse don Barrejo.
L’ufficiale non rispose. Si trovava troppo imbarazzato a dare una risposta contraria.
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