Emilio Salgari - Gli ultimi flibustieri

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– Mi supporreste capace di assassinare le persone che vengono a bere nella mia taverna! – chiese don Barrejo, con accento piccato.

– Non vi credo capace di commettere cosí orrendi delitti, – rispose l’ufficiale. – Io però devo trovare qual gentiluomo.

– Ah!… Era un gentiluomo?…

– Credo. Sentiamo un po’ taverniere: chi è venuto a bere oggi qui?

– Quindici o venti persone, fra europei e meticci, poiché io tengo anche dell’eccellente mezcal , che vi farò assaggiare se lo desiderate.

– Lasciate il mezcal , per ora. Fra quelle persone non avete notato un signore alto, vestito interamente di nero, colla pelle molto bianca ed i capelli biondissimi, anzi quasi bianchi?

Don Barrejo si mise ad accarezzarsi il mento e guardare in alto come se chiedesse alle travi annerite del soffitto qualche ispirazione.

– Alto… magro… coi capelli quasi bianchi… tutto vestito di nero… certo… deve essere quel signore che ha bevuto insieme con quei due sconosciuti.

– L’avevate veduto dunque? – chiese l’ufficiale.

– Me lo ricordo benissimo, perché l’ho servito io. Era in compagnia di due uomini entrati un po’ prima di lui e che io non ho mai veduti prima d’oggi.

– Uno di mezza età e l’altro piú attempato, colla barba brizzolata?

– Precisamente, – rispose don Barrejo. – Hanno vuotato in buona compagnia un bel numero di bottiglie a quel tavolino là, che è ancora ingombro di vetri, poi, approfittando del momento in cui la pioggia accennava a diminuire, se ne sono andati.

– Tutti insieme?

– Si reggevano tra loro, perché le loro gambe non erano troppo ferme. Diavolo!… Si beve vino squisito nella mia taverna.

L’ufficiale si era voltato verso uno dei due alabardieri, dicendogli:

– Hai udito, José?

– Sí, signore.

– Allora tu non eri al tuo posto in quel momento.

– Eppure, signore, vi giuro che io non mi sono mai allontanato da quel portone, il quale o bene o male mi riparava dalla pioggia.

– Forse in un momento di distrazione.

– Lo escludo assolutamente, – rispose l’alabardiere, con voce recisa.

– Eh!… Qualche volta, quando si scambia un’occhiata con qualche bella fanciulla, non si vede piú nulla, – insinuò il taverniere.

– Non ho veduto altro che dell’acqua.

– Ed allora, taverniere? – chiese l’ufficiale.

– Panchita, – chiamò don Barrejo.

La bella taverniera fu pronta ad accorrere.

– Hai veduto anche tu quei tre signori che hanno vuotato a quel tavolino almeno sette od otto bottiglie?

– Sí, Pepito mio.

– Sono usciti di qui, sí o no?

– Se non ci sono piú seduti intorno al tavolino, vuol dire che se ne sono andati.

– Avete capito, signor ufficiale? – chiese il guascone. – Erano in tre e io non son uomo da ammazzare come cani tre cristiani, per poi gettare i loro cadaveri… dove? Non abbiamo nemmeno il pozzo in questa casaccia. Mi pare quindi impossibile che tre uomini di carne ed ossa siano scomparsi senza lasciare traccia di sé. Che fossero dei diavoletti? Si dice che se ne trovino fra quei cani dei filibustieri, almeno cosí affermano i frati della cattedrale.

– L’uomo biondo non era di certo un diavolo, poiché era troppo buono cattolico, – rispose l’ufficiale, il quale pareva preoccupato.

– Vuotiamo alcuni bicchieri ancora, poi procederemo ad una visita rigorosa alla mia casa. Oh!… Aspettate!… Ho in cantina una bottiglia che conta venticinque anni e quattordici giorni, lo so ci certo, perché l’ho presa in mano quest’oggi.

“Volete che l’assaggiamo, signor ufficiale?”

– Vada pure la bottiglia vecchia, – rispose il capo della ronda. – Avremo sempre tempo di visitare la vostra casa.

– Panchita, un lume!… – gridò il guascone. – Dammi anche la mia draghinassa, perché questa istoria di uomini scomparsi mi ha un po’ guastato il sangue.

Prese l’uno e l’altra e, mentre l’ufficiale, approfittando della sua assenza, faceva gli occhietti dolci alla bella taverniera, scese la scala che conduceva in una profonda e molto spaziosa cantina, occupata in buona parte da botti e da barilotti.

Nel passare dietro il banco però, il furbo compare si era impadronito di un fascio di tovaglie.

Aveva appena messo i piedi sull’ultimo gradino, quando si vide precipitare addosso Buttafuoco e Mendoza.

– Dunque?… – chiesero ad una voce alta i due avventurieri.

– La va male, amici. Quel Pfiffero era sorvegliato e la ronda è venuta a chiedermi che cosa ne ho fatto.

– Bisogna farlo sparire, – disse Mendoza.

– Cacciarlo dentro la botte di Xeres ?

– Almeno là non andranno a cercarlo.

– Io ho trovato di meglio, – rispose il guascone.

– Di’ su.

– Voglio farvi fare la parte dei fantasmi.

– Sei pazzo, don Barrejo?

– Vi dico che se non riusciamo a spaventare quei tre poliziotti, le nostre faccende finiranno male, poiché intendono di fare una visita minuziosa alla mia casa ed alla cantina, per cercare quel maledetto Pfiffero.

– Che cosa vuoi che facciamo? – chiese Mendoza, a cui sorrideva l’idea di far la parte dello spauracchio.

– Vi ho portato qui delle tovaglie che indosserete quando l’ufficiale e gli alabardieri scenderanno. All’estremità della cantina poi vi sono dei ferrivecchi e vi troverete anche delle catene.

“Fingetevi spettri o diavoli e vedrete che corsa prenderà la ronda!”

– Risali? – chiese Mendoza.

– Devo portare sopra un paio di bottiglie ancora, che faranno girare completamente la testa a quei brav’uomini.

“Fra un quarto d’ora cominciate a rumoreggiare. Io rispondo di tutto.”

– E se quei tre poliziotti non credessero affatto ai fantasmi? – chiese Buttafuoco.

Tonnerre !… Allora impegneremo risolutamente la lotta e nessuno di loro uscirà vivo dalla cantina, – rispose il guascone. – Vi lascio il lume che vi raccomando di spegnere dopo che avrete ben nascosto dietro le botti quel Pfiffero ubbriacone.

Il bravo taverniere passò in rivista la sua biblioteca, formata di bottiglie di prima marca, almeno cosí assicurava lui, ne prese due che sembravano molto venerande e risalí la scala, impugnando la draghinassa.

L’ufficiale stava in quel momento accarezzando il mento della bella castigliana. Don Barrejo finse di non vedere nulla e si precipitò verso il tavolo, sbuffando come una foca.

– Pepito mio! – gridò Panchita, fingendosi spaventata. – Che cos’hai?

– Io non so, – rispose il guascone, deponendo sul tavolo le due bottiglie, – ma dopo la comparsa di quell’uomo vestito di nero e dai capelli biondi e la sua scomparsa misteriosa, succedono qui certe cose che mi impressionano profondamente, moglie mia.

I tre soldati erano diventati un po’ pallidi, cosa d’altronde non sorprendente in quei tempi, in cui tutti credevano alle apparizioni dei diavoli, dei folletti, delle streghe e degli spettri.

– Che cosa avete veduto? – chiese l’ufficiale.

– Posso essermi ingannato, eppure giurerei di aver scorto, all’estremità della cantina, una figura bianca che danzava intorno alla mie botti.

– Volete spaventarci, taverniere?

– Niente affatto, signor ufficiale. Non vi pare che io sia pallidissimo?

– Veramente lo eravate anche prima.

– No, perché la mia pelle è sempre abbronzata, è vero, Panchita?

– Verissimo, – rispose la castigliana, la quale si studiava di secondare il marito, senza sapere che cosa stava per succedere.

– Mi viene un sospetto, signor ufficiale, – riprese il guascone, il quale stava sturando le due bottiglie.

– Quale?

– Che quell’uomo vestito di nero non fosse affatto un buon cristiano e che invece di uscire dalla porta si sia tramutato in uno spirito per succhiarmi tutto il vino della mia cantina.

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