Emilio Salgari - Le due tigri

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La processione fece il giro dell’immenso braciere fra un frastuono assordante, poi si ammassò dinanzi alla pagoda, formando una specie di quadrilatero.

Sandokan ed i suoi amici avevano approfittato della confusione per portarsi dietro al manti, il quale occupava la prima fila, accanto alla statua della dea Kalí che era stata deposta a terra.

A un cenno del capo dei bramini che aveva la direzione della cerirnonia, le bajadere sospesero le loro danze, mentre i suonatori posavano i loro strumenti.

Tosto una quarantina d’uomini mezzi nudi, per la maggior parte fakiri, che tenevano in mano dei ventagli di foglie di palma, si fecero innanzi avviandosi verso il braciere che, alimentato da centinaia d’altri ventagli maneggiati da robusti garzoni, fiammeggiava lanciando in aria dense volute di fumo soffocante.

Quei fanatici che si apprestavano a subire la prova del fuoco per scontare i loro peccati piú o meno immaginari, non sembravano affatto spaventati dal pericolo che stavano per affrontare.

Si fermarono un momento, invocando con urla selvagge la protezione di Darma-Ragia e della sua sposa, si stropicciarono la fronte colla cenere calda, poi si precipitarono sui carboni ardenti a piedi nudi, mentre i tam tam, i tamburi e gl’istrumenti a fiato riprendevano la loro musica infernale per coprire probabilmente le urla di dolore di quei disgraziati.

Alcuni attraversarono lo strato ardente di corsa; altri invece a passo lento, senza dare prova alcuna di dolore. Eppure dovevano sentire i morsi atroci dei carboni, perché i loro piedi fumavano e per l’aria si espandeva un nauseante odore di carne bruciata.

– Sono pazzi, costoro! – non aveva potuto trattenersi dall’esclamare Sandokan.

Udendo quella voce, il manti che si trovava proprio dinanzi al pirata, si era rapidamente voltato.

I suoi occhi si fissarono per la durata d’un lampo su Sandokan e sui suoi compagni, poi si volsero altrove senza che un grido o un gesto gli fosse sfuggito. Aveva riconosciuto i due comandanti del praho anche sotto le loro vesti di mussulmani indi e anche Kammamuri? Oppure si era voltato per pura combinazione?

Sandokan però aveva notato quello sguardo penetrante, acuto come la punta d’un pugnale e aveva stretta una mano a Yanez che gli stava presso, mormorandogli all’orecchio, in lingua malese:

– Badiamo! Temo che ci abbia riconosciuti.

– Non credo, – rispose il portoghese. – Non sarebbe cosí tranquillo e avrebbe cercato subito di allontanarsi.

– Quel vecchio lí deve essere un furbo di prima forza. Se però cerca di fuggire lo agguanto.

– Sei pazzo, fratellino mio? Siamo in mezzo a una folla di fanatici e i pochi cipayes che si trovano qui non sarebbero capaci di proteggerci. No, siamo prudenti. Qui non siamo in Malesia.

– Sia pure, ma non me lo lascerò scappare ora che lo abbiamo trovato.

– Lo seguiremo e vedrai che in qualche luogo lo acciufferemo, ma, prudenza mio caro, molta prudenza o guasteremo tutto.

Intanto altre squadre di penitenti attraversavano il braciere, incoraggiati dalle grida entusiastiche degli spettatori e dagli incitamenti dei sacerdoti i quali promettevano a quei fanatici gioie e felicità inenarrabili nel cailasson.

Quei poveri diavoli giungevano quasi tutti all’estremità opposta del braciere quasi asfissiati dalle vampate di calore e coi piedi cosí rovinati da non potersi piú reggere.

Si guardavano però bene dal tradire i dolori atroci che li martirizzavano. Anzi si sforzavano di mostrarsi ilari, e alcuni, in preda a un’esaltazione incomprensibile, ritornavano sui carboni danzando furiosamente e saltando come belve in furore.

Sandokan e Yanez, e anche i loro due compagni non si interessavano che ben poco di quelle pazze corse attraverso i carboni.

La loro attenzione era quasi tutta concentrata sul manti, come se avessero avuto paura di vederselo scomparire sotto gli occhi.

Il vecchio non si era piú voltato, anzi pareva che s’interessasse assai dei penitenti che si succedevano sempre in squadre piú o meno numerose. Che fosse poi completamente tranquillo vi era da dubitare, perché di quando in quando si tergeva con un gesto nervoso il sudore che gli colava dalla fronte e si agitava come se si trovasse a disagio fra la folla che lo stringeva da tutte le parti.

Già la festa stava per finire, quando Sandokan e Yanez che erano i piú vicini, lo videro alzare il bin e, approfittando d’un momento in cui i suonatori si riposavano, fece vibrare le corde adoperando solo quelle d’acciaio, che diedero alcuni suoni stridenti e acutissimi, che si potevano udire benissimo in tutti gli angoli della piazza e che parve producessero una certa emozione fra gli uomini che circondavano la statua di Kalí.

Sandokan aveva urtato Yanez.

– Che cosa significano queste note? – gli chiese. – Che sia un segnale?

– Interroga Kammamuri.

Il maharatto, a cui Yanez aveva rivolta la domanda, stava per rispondere, quando verso la pagoda si udirono echeggiare, fra il silenzio che in quel momento regnava fra la folla, prosternata intorno alle divinità, tre squilli poderosi che pareva uscissero da una tromba.

Kammamuri aveva mandato un grido soffocato.

– Il ramsinga dei Thugs! Suona a morte! Signor Yanez, signor Sandokan, fuggiamo. Sono certo che suona per noi.

– Chi fuggire? – chiese Sandokan, con un sorriso superbo. – Noi?… Le tigri di Mompracem non mostrano le spalle. Vogliono battaglia? Ebbene, noi la daremo, è vero Yanez?

– Per Giove! – rispose il portoghese, accendendo tranquillamente una sigaretta. – Non siamo già venuti qui per assistere solamente a delle cerimonie religiose.

– Capitano, – disse Sambigliong, cacciandosi una mano sotto la casacca. – Volete che vi uccida quel vecchio?

– Adagio, tigrotto mio, – rispose Sandokan. – È vivo che mi occorre: della sua pelle non saprei che cosa farne.

– Quando me lo direte, lo porterò via.

– Sí, ma non qui. La festa è finita: amici, attenti al vecchio e preparate le armi. Avremo da divertirci un po’.

Capitolo VI. LA BAJADERA

La piazza a poco a poco si vuotava, mentre i sacerdoti riportavano nella pagoda le statue di Kalí, di Darma-Ragia e di Drobidè, accompagnati dai musicisti e dalle bajadere e da coloro che avevano subita la prova del fuoco.

Il manti accompagnò la statua fino dinanzi la gradinata, suonando il suo bin, ma giunto colà, invece di salire nella pagoda, con una mossa improvvisa si gettò fra un gruppo di persone, sperando probabilmente di sottrarsi alla vista dei quattro finti mussulmani.

Attraversò rapidamente il gruppo, poi imboccò una viuzza che pareva girasse dietro la pagoda e si allontanò a passo di corsa.

Quella manovra non era però sfuggita né a Kammamuri, né alle tigri di Mompracem.

Con altrettanta rapidità, i quattro uomini avevano girato il gruppo ed erano giunti allo sbocco della via ancora in tempo per scorgere il manti il quale si teneva rasente i muri delle case.

– Addosso! – aveva esclamato Sandokan. – Non lasciamocelo scappare di mano.

La via, stretta e fangosa era deserta e per di piú oscurissima non essendovi alcuna veranda illuminata. Le tre tigri di Mompracem e Kammamuri affrettavano il passo per non perdere di vista il manti.

Non volevano assalirlo subito, essendo ancora troppo vicini alla piazza. Un grido poteva far accorrere delle persone, fors’anche i settari che portavano la statua di Kalí i quali non dovevano ancora essersi allontanati dalla pagoda.

Il manti allungava sempre il passo, ma anche gl’inseguitori non perdevano terreno, anzi ne guadagnavano a ogni momento, quantunque non corressero.

Erano già lontani due o trecento passi dalla pagoda, quando improvvisamente da una viuzza laterale videro irrompere un drappello di bajadere munite di cimbali e di larghe fasce di seta azzurra, scortate da due ragazzi che portavano due fiaccole.

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