Emilio Salgari - Le due tigri
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È venuto uno stregone, o qualche cosa di simile, a sacrificare una capra…
– Un manti, – disse Yanez.
Kammamuri mandò un grido e impallidí maggiormente.
– Un manti, avete detto! – gridò.
– Lo conosceresti forse? – chiese Sandokan, con inquietudine.
Il maharatto era rimasto muto, guardandoli con gli occhi dilatati da un profondo terrore.
– Orsú, parla, – disse Yanez. – Che cosa significa lo spavento che leggo nel tuo sguardo? Chi è quell’uomo? L’hai veduto anche tu?
– Come era? – chiese Kammamuri con voce strozzata.
– Alto, vecchio, con una lunga barba bianca e due occhi nerissimi e splendenti, che pareva avessero entro la pupilla due carboni.
– È lui! È lui!
– Spiegati.
– È lo stesso che è venuto due volte a casa del mio padrone a compiere la cerimonia del putscie e che ho veduto aggirarsi altre due volte nella via, guardando le nostre finestre. Sí, alto, magro, colla barba bianca e gli occhi fiammeggianti.
– Putscie! – esclamò Sandokan. – Che cosa vuol dire?… Spiegati meglio, Kammamuri; non siamo indiani.
– È una cerimonia che si compie nelle case, in certe epoche, per propiziarsi le divinità, e che consiste nell’aspergere le stanze di orina mista a sterco di mucca(), nel gettare fiori di riso entro un secchio d’acqua, e nel bruciare molto burro messo entro lampade disposte intorno al recipiente.
– E il manti l’ha compiuta nella casa del tuo padrone? – chiese Sandokan.
– Sí, quindici giorni or sono, – rispose Kammamuri. – È lo stesso che stamane è venuto qui, ne sono sicuro. Quel miserabile è una spia di Suyodhana.
– Era accompagnato da un policeman indigeno?
– Da un policeman! – esclamò Kammamuri facendo un gesto di stupore. – Da quando in qua la polizia scorta i manti o i bramini nel loro giro? Siete stati doppiamente burlati.
Kammamuri s’aspettava da parte della Tigre della Malesia uno scoppio d’ira, invece il formidabile pirata non perdette un atomo della sua calma, anzi parve piú soddisfatto che malcontento.
– Benissimo, – disse. – Ecco una burla da cui trarremo dei vantaggi inapprezzabili. Riconosceresti ancora quell’uomo, mio bravo Kammamuri?
– Anche fra sei mesi.
– E anch’io. Hai portato le vesti che ti avevo raccomandato?
– Ne ho quattro casse nel fylt’ sciarra.
– Che cosa vuoi farne Sandokan? – chiese Yanez.
– Il manti ci dirà se i Thugs sono tornati nella loro antica sede e se la piccola Darma si trova nascosta nei sotterranei di Rajmangal, – rispose la Tigre della Malesia. – Ci era necessario un thug per farlo cantare: lo abbiamo sottomano e per Allah, canterà ben alto.
Si tratta solo di scovarlo e non dispero.
– Calcutta è vasta e popolosa, amico. Sarebbe come trovare un granello perduto in un deserto di sabbia.
– Forse è meno difficile di quello che credete, – disse ad un tratto Kammamuri. – Vi è una pagoda dedicata alla dea Kalí, nella città nera, dove i Thugs bazzicano e dove da tre giorni si festeggia Darma-Ragia e la sua sposa Drobidè. Non sarei sorpreso se ritrovassimo là il manti.
– Sarebbe una grande fortuna, – disse Sandokan. – Quando comincia la festa?
– Alla sera.
– Devi ritornare dal tuo padrone?
– Gli ho detto di non aspettarmi; d’altronde prima di doman mattina egli sarà qui. Ha deciso di rifugiarsi sul vostro praho onde poter meglio agire senza essere spiato.
– Volevo proporglielo. Qui è al sicuro meglio che nel suo palazzo e poi la sua presenza può esserci necessaria.
Andiamo a pranzare poi faremo la nostra toletta, onde il manti non ci possa riconoscere.
Non credevo di aver tanta fortuna in dodici ore. Se il briccone cade nelle nostre mani, daremo il primo scacco all’amico Suyodhana. Ah! E gli elefanti?
– I servi del mio padrone sono già partiti per acquistarli, e fra qualche giorno noi li possederemo.
– È necessario che i Thugs non ci vedano. Potrebbero sospettare la nostra intenzione di recarci nelle jungle del sud.
– Hanno già avuto l’ordine di condurli in un bengalow che appartiene al mio padrone e che si trova nei pressi di Khari, l’ultima borgata delle Sunderbunds.
– Andiamo a pranzare, amici la giornata non è stata perduta.
Capitolo V. LA FESTA DI DARMA-RAGIA
Il sole stava per tramontare dietro le alte cupole delle pagode della città nera, quando la baleniera lasciò il praho, risalendo il fiume sotto la poderosa spinta di otto remi, maneggiati da altrettanti malesi, scelti fra i piú robusti dell’equipaggio.
A poppa stavano seduti Kammamuri, Sandokan e Yanez, tutti tre camuffati da mussulmani kolkari, e Sambigliong, il mastro della Marianna o meglio l’aiutante di campo del formidabile pirata.
Non avevano nessuna arma in vista, ma da un certo rigonfiamento della casacca, si poteva supporre che fossero invece formidabilmente muniti di bocche da fuoco e anche d’armi bianche.
La baleniera, che marciava rapidissima, costeggiò lo Strand della città bianca, ossia inglese, la via piú bella e piú frequentata di Calcutta, che si prolunga fino alla spianata del forte William e che è fiancheggiata da palazzi e da giardini degni di Londra; poi filò dinanzi ai quais dove si seguivano senza posa eleganti palazzine chiamate bengalow, cinte da graziosi giardini, e dopo una buona ora giunse di fronte alla città nera, la black-town.
Mentre la città inglese non ha nulla da invidiare alle piú belle capitali europee, questa non è altro che un ammasso immenso di catapecchie, con pochi monumenti degni della grandiosa architettura indiana che sfolgora invece a Delhi, ad Agra, a Benares ed altrove.
Dalle splendide palazzine inglesi, dai palazzi immensi, dai negozi sfolgoranti di luce, dalle chiese anglicane ai teatri, agli squares della città bianca si passa senza transizione alle capanne miserabili, alle pagode semi-crollanti, ai bazar oscuri e fetenti, alle viuzze luride e fangose.
Tutto è rovina, sporcizia, miseria, nell’antica città indiana. Casupole o capanne, parte di mattoni mal connessi, parte costruite con poche tavole inchiodate alla meglio, che non hanno quasi mai piú d’un piano, si seguono per parecchi chilometri, senza ordine, senza regola alcuna, divise solo da stradicciuole che sono pericolose a percorrersi di sera, nonostante la continua vigilanza dei policeman bianchi e indigeni.
Erano le otto di sera, quando Kammamuri, Yanez, Sandokan e Sambigliong sbarcarono sul quai della città nera, ingombro in quel momento di barche di pescatori e di pinasse provenienti dall’alto corso del Gange.
Quantunque fosse un po’ tardi, una certa animazione regnava sulle gettate.
Dalle pinasse sbarcarono numerosi indiani, accorsi probabilmente dai villaggi vicini per assistere alla festa in onore di Darma-Ragia, la quale doveva già essere cominciata, udendosi in lontananza un frastuono assordante di tam-tam, di tamburi di sitar e di mirdeng.
– Arriveremo in tempo per assistere alla danza del fuoco, – disse Kammamuri a Sandokan. – Vi saranno molti piedi scottati questa sera, perché è l’ultima e quindi la piú importante.
Si unirono alla folla sbarcata dalle pinasse che si rovesciava attraverso le viuzze fangose della città, a malapena illuminate da mezze noci di cocco sospese alle finestre delle case, quasi ricolme di olio in cui nuotava uno stoppino.
Lasciandosi portare da quell’onda di curiosi, dopo venti minuti si trovarono in una vasta piazza, illuminata da un gran numero di aste di ferro piene di cotone imbevuto di materie resinose, e chiusa da un lato da una vecchia pagoda d’antico stile indiano, che s’innalzava in forma di piramide tronca con colonnati, teste d’elefanti, divinità mostruose e animali anneriti dal tempo.
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