Emilio Salgari - Le due tigri
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La piazza era gremita di bramini, di babú, ossia di borghesi, di sudra, di battellieri e di contadini, però nel mezzo vi era uno spazio tenuto vuoto da alcuni drappelli di cipayes, dove ardevano immensi bracieri che proiettavano intorno un calore piú che torrido.
– Che cosa si cucinerà su quei bracieri? – chiese Sandokan, che s’apriva faticosamente il passo fra quella folla di curiosi e di fanatici.
– Dei piedi, signore, – rispose Kammamuri.
– Quali piedi? Di chi? Di elefanti forse? Ho udito raccontare che sono squisiti.
– Umani, capitano, – disse il maharatto. – Vedrete che spettacolo; ma giacché non è ancora cominciato spingiamoci verso la pagoda, se potremo giungervi: Quegli che cerchiamo possiamo trovarlo colà.
Facendo forza di gomiti, poterono non senza fatica giungere alla base della gradinata che conduceva alla pagoda, ma colà si videro arrestati da una vera muraglia umana che non era possibile sfondare.
Essendo però la terrazza che si estendeva dinanzi al tempio abbastanza elevata, potevano assistere egualmente alla cerimonia che si svolgeva dinanzi alla statua della dea, collocata davanti alla porta.
Tutte le pagode indiane hanno due statue che rappresentano la stessa divinità a cui il tempio è stato dedicato: una collocata all’esterno a cui il popolo può presentare le sue offerte; l’altra interna a cui gli adoratori possono egualmente far pervenire i loro doni per mezzo dei sacerdoti, i quali si sono riserbato il diritto di poterla avvicinare da soli.
Ad essi spetta il lavarla col latte di vacca, o coll’olio di cocco, l’ornarla di fiori e farle unzioni durante le grandi cerimonie.
Il popolo dove accontentarsi di guardare l’idolo interno da lontano, felice di poter avere almeno un petalo dei fiori che l’ornano e che i sacerdoti distribuiscono terminata la festa.
Intorno alle due statue di Darma-Ragia e di Drobidé sua moglie, erano state accese un gran numero di fiaccole, mentre bande di suonatori percuotevano con furore tamburi e tamburelli e laceravano gli orecchi coi suoni acutissimi dei gong e molte coppie di bajadere intrecciavano danze, facendo volteggiare in aria, con grazia, i loro veli trapunti in oro o in argento.
Kammamuri e i suoi compagni si fermarono alcuni minuti gettando qua e là degli sguardi in mezzo alla folla, colla speranza di scoprire il vecchio manti poi, disperando di poterlo scovare fra quel mare di teste agitantisi burrascosamente, retrocessero verso il centro della piazza.
– Cerchiamo un buon posto presso i fuochi, – aveva detto il maharatto a Sandokan.
– Sono certo che troveremo il vecchio stregone nel corteo della dea Kalí.
Se è veramente un thug, come abbiamo motivo di credere, vi prenderà parte.
– Non è la festa di Darma-Ragia? – chiese Yanez.
– È vero, ma essendo la pagoda dedicata a Kalí, porteranno in giro anche la mostruosa statua di quella sanguinaria divinità.
Spingendo poderosamente a destra e a sinistra, i quattro uomini poterono finalmente raggiungere il centro della piazza, il quale era coperto per un tratto considerevole di tizzoni ardenti, che un nuvolo d’indiani ravvivava servendosi di ventagli di foglie di palma.
– Sono per gli adoratori di Darma-Ragia queste brace? – chiese Yanez.
– Sí e vedrete come quei fanatici vi correranno sopra.
– Bel gusto ad abbrustolirsi le piante dei piedi.
– Ma guadagneranno il cailasson.
– Ossia? – chiese Sandokan.
– Il paradiso, signore.
– Lo lascio volentieri a loro, – rispose il pirata, sorridendo – preferisco conservare intatti i miei piedi.
Un fracasso indiavolato e un vivo ondeggiamento della folla li avvertí che la processione usciva in quel momento dalla moschea, per condurre alla prova del fuoco i devoti.
Un profondo squarcio si era prodotto fra quella massa enorme di curiosi e di adoratori e una nuvola di danzatrici vi si era cacciata dentro seguita da drappelli di suonatori e di portatori di torce.
– Tenetevi tutti presso di me, – aveva detto Kammamuri, – soprattutto non perdiamo il posto.
Quantunque fossero stati dapprima travolti da quel movimento disordinato, erano riusciti a rimettersi in prima fila, presso il margine dell’immenso braciere.
La processione scese la gradinata, e s’avanzò verso il centro della piazza sempre preceduta dalle bajadere e dai suonatori seguita da stormi di bramini salmodianti lodi in onore di Darma-Ragia e di Drobidè.
Seguivano le due statue delle divinità, l’una di pietra e l’altra di rame dorato, collocate su una specie di palanchino portato da parecchie dozzine di fedeli; poi l’orribile statua della dea Kalí, la protettrice della pagoda, in pietra azzurra e coperta di fiori.
La moglie del feroce Siva, il dio sterminatore, raffigurava come una donna negra con quattro braccia, di cui una brandiva una specie di daga e un’altra reggeva una testa mozza.
Una collana di teschi umani le scendeva fino ai piedi e una cintura di mani tagliate le stringeva i fianchi, mentre dalla bocca sporgeva la lingua che gli artisti indiani avevano dipinto in rosso onde ottenere un maggior effetto.
Dinanzi le stava un gigante coricato ai suoi piedi ed ai fianchi due figure di donna, smunte e smilze, coperte solo da una lunga capigliatura che scendeva fino alle loro ginocchia.
Una reggeva un cranio umano che teneva accostato alle labbra come se vi bevesse dentro, mentre un corvo pareva che attendesse, col becco aperto, qualche goccia di sangue, l’altra mordeva ferocemente un braccio umano e una volpe la guardava come se reclamasse la sua parte.
– È quella la dea dei Thugs? – chiese Sandokan, sottovoce.
– Sí, capitano, – rispose Kammamuri.
– Non potevano inventarne una piú spaventevole.
– È la dea delle stragi.
– La vedo, una dea che fa paura.
– Aprite gli occhi, signore. Se il manti è qui, sarà presso la statua di Kalí. Forse sarà uno dei portatori.
– Sono tutti Thugs di Suyodhana, quelli che circondano la dea?
– Possono essere tali e questo sospetto mi è confermato da un’osservazione assai importante.
– Quale?.
– Che la maggior parte hanno il corpo coperto da una camicia, mentre come vedete, quasi tutti gli altri indiani sono semi-nudi e non prendono cura alcuna di nascondersi il petto.
– Per non mostrare il tatuaggio, è vero?
– Sí, signor Sandokan, e… Eccolo! È lui! Non m’ero ingannato.
Il maharatto aveva stretto un braccio del pirata, mentre coll’altro indicava un vecchio che marciava dinanzi alla statua delle divinità, suonando uno strano istrumento formato da due zucche d’ineguale grossezza, troncate ad un quarto della mole e congiunte per mezzo d’un tubo di legno su cui erano tese delle corde: il bin degl’indiani.
Sandokan e Yanez avevano frenato un grido di sorpresa.
– È quell’uomo che è venuto a bordo del nostro praho, – disse il primo.
– Ed è lo stesso che ha compiuto la cerimonia del putscie nella casa del mio padrone, – disse Kammamuri.
– Sí è il manti! – esclamò Yanez.
– Lo riconosci tu Sambigliong?
– È proprio quel vecchio che ha scannato il capretto, – rispose il mastro della Marianna. – È impossibile ingannarsi.
– Amici, – disse Sandokan, – giacché la sorte ce lo ha fatto ritrovare, non lasciamocelo sfuggire.
– Non lo perderò di vista, capitano, – disse Sambigliong. – Lo seguirò, anche sulla brace se voi lo desiderate.
– Gettiamoci in mezzo al corteo.
Con una spinta irresistibile sfondarono le prime file degli spettatori e si mescolarono ai devoti di Kalí che circondavano la statua.
Il manti non era che a pochi passi dinanzi a loro ed essendo egli di statura molto alta, era facile tenerlo d’occhio.
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