Cesare Balbo - Novelle

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Detto questo, il maestro s'alzò e s'avviò al giardino! e gli uni dopo gli altri tutti gli uditori, che alcuni mi parvero commossi dalla storia; altri all'incontro dicevano che di queste cose, se ci si volesse badare, ne accadono tutti i dì, e questo non si chiamava nè storia nè novella. Ma il vero è che nessuno riprese la disputa di prima; nè era stato altro l'intento del buon maestro. Poco dopo, già non essendo più persona nel salotto, vi tornava egli, ed io l'udii che preludiava sul gravicembalo, e intuonava come una cantilena d'improvviso molto semplice, e poi incominciava a cantare a mezza voce, onde io m'accostai, e udii questa canzone:

Tratto alle pugne oltre all'ignota Moscova
Dell'italo guerrier tai fur gli accenti,
Mentre ei forbiva al sorger del sol nordico
L'armi lucenti.

Nordico sol, fa, che da lungi splendano
L'italiche armi in mezzo all'armi franche;
Del sangue ostil oggi fien prime a tingersi,
L'ultime stanche.

Nordico sol, oggi per te dimentico
Il chiaro italo sole e l'alma terra,
Ove nodrito io fui, che parte Eridano,
E l'Alpe serra.

Ardito e lieto al giorno di battaglia
Me veda il Franco, che pur me deride,
Primo al giuoco, alla mensa, ai vani cantici
Quando s'asside.

Alle mense, alle danze il pregio tolgasi
Il Franco pur: ma sull'arduo ridotto
Me segua il Franco, quando il passo sgombrogli
E l'oste ho rotto.

Dimesso il capo, basso il crine ed umile
Serba alla stalla l'Arabo destriero.
Squilla la tromba? – Ei chiama co' suoi fremiti
Il cavaliero.

Quando scomposto stuolo indietro timido
Fugge del soverchiante oste l'incontro;
Ditelo, o duci, chi si ferma, e impavido
Si volge contro?

Quando la schiera spalle a spalle accumula
Irta di ferro, ed i cavalli aspetta;
Chi figge i piè, chi tiene il posto immobile,
O l'arma stretta?

Or ben, terso è l'acciar, la squadra s'ordina,
Batte il tamburo, omai suona ogni tromba;
Cresce il frastuono; odi, di guerra il fulmine
Da lungi romba.

Ve' come a passo egual marcia terribile
Schiera cui duce guidar sembra morte.
Ecco i verde-vestiti; or deh proteggavi
L'itala sorte.

Felici voi cui diede il ciel combattere
Itali tutti l'un a l'altro accanto:
Felici almen, cui resta d'una patria
Il nome e il vanto.

Col Franco, o col German misto, o col Belgico,
Franco di nome io pur divido il letto.
Ma invano, italo cuore invariabile
Mi balza in petto.

«Giorno verrà, dall'Alpi all'Adriatico,
Una favella unirà Italia, e un nome;»
Tu 'l promettevi c'hai le man, tu Italo,
Entro sue chiome.

Folle chi in te sperò; te il cielo vindice…
Me chiama il duce, ecco la pugna ferve.
Si pugni e vinca, e serva il mondo al perfido,
Se Italia il serve.

Finita che fu, ricominciò il maestro ad arpeggiare in varii toni minori, finchè alzandomi ei si avvide di me, ed io che ei non mi voleva bene d'averlo a suo malgrado ascoltato. Domandaigli pure se la canzone era sua, o forse di qualche ufficiale tornato da Mosca, o forse di Toniotto. Ma egli non me ne volle dir altro; ond'io credo che sia di lui. Perchè in gioventù so che fu pastore d'una colonia arcadica, sonettista, e schiccherator di versi sciolti nelle raccolte. Ora, colpa o grazie all'età, ei se ne vergogna e non vuol che si dica.

LA BELLA ALDA

Al tempo d'una delle discese de' Francesi per la comba di Susa, che qual sia non lo potrai accertare, avvenne, che rimasta a guardare il passo importante delle Chiuse una schiera d'uomini d'arme, questi, secondo il consueto di tutti gli uomini d'arme, invasori antichi e nuovi, e più dei distaccati e lasciati indietro, incominciarono in varii modi a taglieggiare ed opprimere il paese all'intorno. Benchè, essendo alleati del Duca e provveduti da lui d'ogni bisogna; ed avendo ordine da' proprii capi di vivere co' terrazzani come amici; e solendo poi i Francesi, a differenza di altre genti, e ad eccezione di alcuni scellerati che si trovano in tutte, essere ladri solamente per necessità, o tutt'al più per a tempo, e quando, come dicono essi medesimi, l'occasione fa il ladrone; certo i ladronecci erano men frequenti che non sarebbesi temuto; e se n'erano fatti alcuni da qualche mal soldato, e dalla gentaglia dell'esercito, per lo più anche erano da' cavalieri e da' capitani severamente castigati; e la riparazione sborsata o da essi, o dai delinquenti, o tavolta dal Duca. Ma se per soldati erano radi i loro peccati contro il settimo e il decimo comandamento di non pigliare e non desiderar la roba d'altri; tanto più frequenti, forza è pur confessarlo, erano quelli fatti contro il sesto e il nono, di non usurpare e non desiderare la donna altrui. È vizio antico e noto de' Francesi. Noto il famoso macello de' Vespri Siciliani al tempo di Carlo d'Angiò. Carlo VIII ne perdè il regno. A' tempi nostri ne durano vive le memorie, che i posteri cercheranno nelle storie, e forse nell'opuscolo de' Romani in Grecia, nelle belle canzoni milanesi del Porta e del Grossi, e nelle piemontesi del Calvo, e mille altre canzoni, anche troppe; chè gl'Italiani così d'accordo in cantare, ben avrebbero dovuto esserlo più in resistere. Come poi in tutte queste invasioni, così in quella di cui è la nostra istoria, i Francesi, che qualunque sia il merito personale di ciascuno di essi, ognuno se lo porta come in mano, e subito lo fa vedere, e per così dire lo spende e scialacqua in moneta piccola, dovunque arrivassero incominciavano a farsi ben volere; nè eran dimorati due o tre dì in una terra o in una casa che non paressero esservi da gran tempo; ed entravano a parte de' negozi e de' divertimenti domestici, e si facevano come della famiglia; e se non era di quella loro eterna frase del chez nous , che monta a ciò, a casa nostra si fa così, e si fa meglio che da voi; quasi che ognuno di essi sarebbe paruto nato e cresciuto della famiglia e del paese dove era arrivato poc'anzi. Ma che valeva? Tutto ciò era perfidia, e mentre cotestoro parevano aiutare, adulare, compiacere al padrone di casa, non ad altro miravano che alla padrona o alla padroncina, di cui insidiavano la fede e l'amore. Gran vantaggio almeno hanno sopra questi Francesi, e gran preferenza meritano gli altri invasori. I quali mostrandosi subito schiettamente e generosamente quali sono, nè si fanno mai da maschi nè da femmine perfidamente amare, nè ingannano i popoli soggetti, e dal primo all'ultimo giorno con ammirabil costanza, non sono un'ora mai da sè stessi diversi.

I giovani francesi lasciati da' loro capitani a presidio delle Chiuse nelle terre di S. Ambrogio, S. Antonio, Avigliana, Giaveno, e l'altre all'intorno, solevano, grandemente lagnarsi della propria sorte; che mentre i compagni erano scesi a' ricchi piani, e ridenti colli, e alle popolose città dell'Italia (e l'Italia per quanto sia bella in realtà, è più ancora all'immaginazione di tutti i popoli settentrionali), lagnavansi, dico, i giovani francesi d'essere stati lasciati in mezzo a quelle rupi, e que' nudi sassi, e que' neri boschi, e que' poveri tugurii; «dove» aggiugnea taluno con un dispettoso sorriso «difficile sarebbe dire se più sia guardata la onestà di queste misere Alpigiane dalla loro bruttezza, o più la bruttezza dall'onestà.» E in ciò si vuol dire che que' Francesi fossero veri conoscitori, e ben s'apponessero. Perchè le Alpigiane sogliono essere sane e fresche sì, ma piccole, grosse e tarchiate; e qualunque ne sia la ragione, di rado è che ritraggano le nobili e regolari fattezze delle altre Italiane. Immaginate adunque che novità fosse a que' Francesi sfaccendati, e che stavano ogni giorno di mercato meno a vagheggiare che a maledir le donne e le fanciulle sulla piazza di S. Ambrogio, il vedervi un mattino comparir soletta una fanciulla d'intorno a' sedici anni, alta, svelta e ben formata della persona; con mani e piè, che ne avrebbero disgradata qualunque più gentile fra le damigelle della Reina di Francia; e un volto! un volto, che all'allegrezza degli occhi, alla leggiadria della bocca, al color cinerino de' capegli, e più di tutto alla vivezza d'ogni impressione ed alla grazia dell'acconciatura, avresti detto francese, se non che la regolarità del bel profilo dall'alta e piana fronte al rotondo mento la mostravano veramente italiana; e l'abito snello e corto poi, lo stretto busto di velluto nero, e il fazzoletto rosso e grossolano, che mal gli copriva, ma graziosamente le inquadrava per così dire il viso, la mostravano schietta Alpigiana. Fu un sussurrio, un accostarsi l'uno all'altro, un accennar di dita, un affollarsi a lei, un comprarle, in men d'un ave, latte, ova, e quanto avea nella sporta, e un vagheggiarla e farle cerchio attorno, e interrogarla, e volerla seco trarre, che non s'era mai più veduto, ed avrebbe bastato a confondere una delle suddette sperimentate donzelle della corte reale, non che una tenera e timida foresozza com'era questa. Ma ella, benchè alquanto arrossisse e chinasse gli occhi, e non dando retta, poche oneste parole rispondesse ad ognuno; non mostravasi tuttavia troppo confusa; e pareva quasi persona che là venendo, avesse aspettato tanto, e vi fosse venuta ben apparecchiata, e che all'incontro di quell'altre sue paesane difese da loro bruttezza, ella lo fosse da sua bellezza ed alterigia. In breve, avendo ella così prestamente finito di vendere quanto avea recato; senza fermarsi altrimenti, ma alzando il capo e mirando intorno in atto quasi maestoso, e messo lo sguardo su un giovane che era in un canto del mercato, e non avea mai levato gli occhi da lei; ella, aprendo la folla de' vagheggiatori, dritto a lui s'avviò, ed egli a lei; ed ambidue poi uscieno della piazza, e s'avviavano per lo sentiero alpestro che sale alla Sacra o Monistero di S. Michele. Nè è a dire come tutti la seguitassero con gli occhi, e alcuni pure co' passi. Ma perchè era il sentiere molto cospicuo, e l'ora non lontana dal meriggio, e il mercato grosso, e presenti i capi, niuno s'ardì farle oltraggio, o nemmeno troppo lungi seguirla. Ed ella a raddoppiati passi, leggeri e veloce salendo, ora scomparendo, ora ricomparendo per gli alpestri andirivieni, finalmente svanì del tutto agli occhi di quegli stessi, che erano rimasti più costanti a mirarla. I quali forse, per poco di poesia che avessero in capo, l'avrebbero comparata a qualche Angiolo di Paradiso risalente al cielo fra le nubi; se non che quel compagno che traeva seco, dovea guastar la comparazione, e tarpar l'ali a qualunque più poetica o più amorosa immaginazione.

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