Cesare Balbo - Della storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni, sommario. v. 2

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conte Cesare Balbo

Della storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni, sommario. v. 2

LIBRO SETTIMO

ETÁ SETTIMA: DELLE PREPONDERANZE STRANIERE
(anni 1492-1814)

1. Di quest’etá in generale, ed in particolare di questo periodo primo delle preponderanze spagnuola e francese combattute [1492-1559]. – Fin dall’ultimo secolo dell’etá precedente, noi vedemmo incominciare quel travaglio di unione dei popoli, d’ingrandimento degli Stati italiani, il quale continuò lungo tutta l’ultima e durante nostra etá. E noi, salutammo siffatte riunioni con compiacimento, senza guari compiangere le forme repubblicane perdutesi in quell’opera, senza lamentare i principati sorti sulle loro rovine; perché crediamo, che anche ne’ principati possa esser libertá e felicitá; perché ai tirannici e semibarbari di que’ secoli ne succedettero di quelli civili, e che van diventando liberi; perché poi, in somma, noi teniam l’occhio fermo principalmente al bene di tutte insieme le terre italiane, e che, tenendo sempre piú impossibile la riunione totale di esse, noi stimiamo sommo bene lo sminuzzamento quanto minore, le riunioni quanto maggiori sieno possibili. Se si fosse continuata quest’opera delle unioni degli Stati senza invasioni, senza preponderanze straniere, Dio sa qual magnifico destino sarebbesi venuto ordinando fin d’allora all’Italia! Dio non volle, pur troppo; i nostri maggiori non se l’erano meritato; non avean adempiuto ai grandi doveri, alle grandi virtú nazionali; non avean badato se non ciascuno a sé, con quell’egoismo politico che è vizio e stoltezza insieme, e tanto piú quanto piú va progredendo la civiltá. Quindi, quest’etá, che fu felicemente della formazione degli Stati italiani, fu pure infelicissimamente delle invasioni e delle preponderanze straniere; e prima, delle due francese e spagnuola combattenti tra sé per sessantasette anni; poi della spagnuola pesante sola per centoquaranta; poi delle due, francese ed austriaca, contrappesanti in guerra o in pace, per centoquattordici altri. E da queste tre combinazioni diverse di preponderanze verranno poi naturalmente le tre suddivisioni di quest’ultima etá nostra. Nella quale non faccia specie se dimoreremo piú a lungo che nell’altre piú lontane. Cosí abbiam fatto, a disegno, fin da principio. Nelle storie scritte ad uso degli eruditi, si soglion cercare i particolari de’ tempi quanto piú antichi. Ma nelle storie scritte ad uso comune, popolare, giovano all’incontro tanto piú i particolari, quanto piú son di tempi vicini, simili a’ nostri, piú utili ad accennare ciò che sia da imitare, ciò che da fuggire. – E rimanendo ora nel primo de’ tre periodi detti, ci par da notare che niuno forse mai quanto quello s’assomigliò ai tempi nostri. Una delle volgarita di questi è di credere, che non somiglino a nessun altri, che non mai si sien veduti tanti e cosí grandi fatti, tante e cosí grandi novitá. Quindi poi due gravi errori, due politiche contrariamente esagerate e mediocri: di alcuni timidi, spaventati per sé, od anche candidamente per altrui, di quel moto che par loro anomalo, pericoloso, e a cui si fanno un dovere di resistere, senza eccezione né discernimento; di altri avventati e buonamente compiacentisi in ogni moto, in ogni novitá, e che si fanno un dovere di secondarle, di spingerle, senza discernimento pur essi. Non molti sanno vedere il proprio tempo qual è; non molti, che il nostro, pieno di fatti nuovi e progressivi senza dubbio, è perciò appunto simile ad altri tempi non meno pieni di tali fatti; diversi l’uno e gli altri in ciò solo, che i progressi posteriori son di lor natura pur ulteriori; ma di nuovo simili in ciò, che tra le novitá sempre le une son progressi, e le altre all’incontro arresti o regressi; e che quindi sempre ogni politica assennata debb’essere discernente, e constare delle due opere del secondare e del resistere. Ad ogni modo, se niun tempo mai fu pieno di grandi novitá, certo fu quello che siamo per correr qui dal 1492 al 1559, dalla chiamata di Carlo VIII che turbò l’Italia e la cristianitá, alla pace di Cateau-Cambrésis che bene o male le compose. – Trovata la bussola da due secoli, la polvere da guerra da uno e mezzo, la stampa da un mezzo, le lettere antiche lungo tutto quel tempo, l’astrolabio da alcuni anni, l’America nell’anno stesso onde incominciamo, la via dell’Indie per il capo di Buona Speranza due anni dopo [1494]; s’accumularono, si combinarono gli effetti di tutte queste nuove cause; ne uscí un mondo rinnovato tutto; si rinnovarono, si mescolarono tutte le nazioni; e n’uscí la cristianitá pur troppo non piú unita in una fede e una Chiesa intorno a una sedia centrale, ma una cristianitá felicemente unita, non piú intorno alla barbara monarchia universale di Carlomagno e de’ pseudo-imperatori romani, bensí in una civiltá e una coltura universali. E il mezzo adoperato a ciò dalla Provvidenza qual fu egli? Evidentemente quel ritrovo che ella diede a tutte quelle nazioni semibarbare nella nostra Italia, posseditrice da quattro secoli non solamente del primato, ma della privativa della libertá e della coltura. Le nazioni non presero, per vero dire, la libertá italiana, che non era bella, non buona, non civile, non allettante, e del resto giá semispenta; ma presero quella coltura, di che abusaron prima religiosamente, di che usaron poi politicamente a riacquistare la libertá. – E l’Italia intanto? L’Italia che aveva tutti i vantaggi della libertá, della coltura, dei commerci e delle ricchezze, ma che aveva i tre grandi svantaggi della libertá mal ordinata, del disuso nella milizia, e di una indipendenza mal compiuta; l’Italia perdette tutti que’ vantaggi suoi, tutte quelle sue operositá, e quel poco d’indipendenza; visse od anzi sopravvisse alcun tempo splendidamente in quegli uomini sorti al tempo migliore, per cader poi, quanto a politica, a un tratto; quanto al resto, a poco a poco, in un’abbiezione che, questa sí, fu anormale, forse unica nella serie de’ secoli civili cristiani. – Furono dunque questi sessantasette anni uno splendidissimo, spensieratissimo precipitare e non piú. E quindi peggio che mai resta tormentato qui lo scrittore di non aver luogo a spiegarli, a lasciarne una chiara ed adeguata impressione. Ma suppliranno i leggitori, con quel che sa ognuno di questo nostro tempo di splendore. E suppliran pure a quelle applicazioni a’ propri tempi, le quali, che dicasi, sono insomma il vero pro della storia; sapran vedere tutta la serie delle cause, degli effetti, e delle nuove cause di nostre perdizioni; l’incompiutezza antica dell’indipendenza, l’antico disordine delle libertá, l’antico difetto d’armi nazionali, gli stranieri nuovamente chiamati, sofferti, lasciati antiquarsi; e finalmente le operositá nazionali cessate, gli ozi, i vizi, le mediocritá innaturali all’Italia, accettate quasi necessitá, diventate abito, e seconda natura; e, danno e vergogna ultima a’ degeneri, il riposar in quel limo, e consolarvisi col sognar le glorie de’ maggiori.

2. Stato d’Europa e d’Italia [1492-1494]. – La Provvidenza ha tutto nelle mani, senza dubbio; ma lascia apparire alcune, e cela altre delle leggi delle opere sue; e fra le piú celate è forse quella per cui concede o nega uomini alle nazioni. Fu uno di que’ decreti male scrutabili di lei, che mentre i popoli oltremontani ed oltremarini si univano dopo lunghi travagli ciascuno in un corpo di nazione sotto principi se non grandi almeno arditi ed operosissimi, l’Italia, perduto Lorenzo il magnifico, non avesse piú se non uomini o mediocri (come giá quelli che eran succeduti a Cosimo e Francesco Sforza), o cattivi o cattivissimi. – In Inghilterra Arrigo VII, regnante dal 1485, aveva con suo maritaggio riunite le due case, distrutte le due fazioni di Lancastro e di York, che l’avevano lungamente straziata.

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