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Carlo Botta: Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo III

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Carlo Botta Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo III

Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo III: краткое содержание, описание и аннотация

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Già abbiamo in un precedente libro raccontato, che Bergamo era stato occupato da Buonaparte, come istrumento potente a volgere a sua divozione l'animo dei popoli della terraferma Veneta. Fu del tutto violento il modo, e contrario a tutti gli usi della neutralità. Entrarono i repubblicani in Bergamo, Baraguey d'Hilliers gli guidava, con cannoni ordinati a modo di guerra, con le micce accese, s'impadronirono delle porte, recaronsi in mano le artiglierìe Veneziane, intimarono al podestà Ottolini, facesse sgombrar dalla terra tutte le truppe Venete; se nol facesse, userebbero la forza. In tale guisa s'insignorirono di Bergamo coloro, che accusavano Venezia della violata neutralità. Ma questo non era che il principio, ed il fondamento delle trame che si ordivano. Erasi per opera di Buonaparte creata in Milano una congregazione segreta, nella quale entravano in gran numero i repubblicani Italiani, ed il cui fine era di operare rivoluzioni nel paese Veneziano. Alcuni Francesi vi erano mescolati, che intendevano ai medesimi fini. Tra questi un Landrieux, capo dello stato maggiore di cavallerìa, era stato eletto dalla congregazione, qual operator principale a turbare le cose Venete. Ma egli, o che avesse per onestà di natura realmente in odio quest'opere pestifere, o che per motivo meno sincero, come ne lo sospettò Buonaparte, avesse occulto intendimento con gl'inquisitori di stato di Venezia, fe' sapere o per mezzo loro, o immediatamente ad Ottolini, che, ove una persona fidata a Milano mandasse per conferir con lui, le svelerebbe cose, che massimamente importavano alla salute della repubblica Veneziana. Mandava il segretario Stefani: trovava in Milano un avvocato Serpieri Romano, trovava Landrieux, alloggiavanlo segretamente in casa Albani: affermava Landrieux a Stefani, essere onest'uomo, per questo avere in abbominio le rivoluzioni, già averne impedito una in Ispagna, volere impedire quella dello stato Veneto; a ciò muoverlo l'onore della nazione Francese calpestato da Buonaparte, dal direttorio, dai consigli, orrida tutta, come diceva, e facinorosa gente; muoverlo ancora i benefizj fatti dalla repubblica Veneziana all'esercito di Francia, muoverlo l'umanità, muoverlo il desiderio della pace: avere fra un mese ad esser pace con l'Austria, se fosse impedita la rivoluzione degli stati Veneti; nel caso contrario non esservi più modo di conciliazione, non aver più freno l'ambizione di Buonaparte; abbracciare nell'ambizione sua la sovranità d'Italia. Soggiungeva poscia, che la rivoluzione dello stato Veneto era opera della congregazione segreta di Milano, alla quale partecipavano principalmente Porro Milanese, Lecchi, Gambara, Beccalosi da Brescia, Alessandri, Caleppio, Adelasio da Bergamo; dovere lui stesso, Landrieux, essere l'operator principale della rivoluzione, sapere i nomi, le forze, le macchinazioni dei congiurati, dovere aver principio la rivoluzione in Brescia, poi dilatarsi in Bergamo ed in Crema; uomini apposta, seminatori di denaro di ribellione, essere sparsi fra i contadini delle valli, matura non essere ancora la trama, avere ad essere fra otto o dieci giorni: erano i nove di marzo. Trattenessesi, esortava, in Milano Stefani, svelasse il tutto per un procaccio fidato a Battaglia, provveditore straordinario di Brescia; perchè, affermava, impedita la rivoluzione in Brescia, s'impedirebbe anche negli altri luoghi; intanto non si facessero carcerazioni di persone, perchè per questo si ritarderebbe, non s'impedirebbe l'esito della congiura: sapere il giorno dell'unione di tutti i congiurati, ne avvertirebbe egli, acciocchè tutti ad un tratto potessero arrestarsi, e così intieramente si renderebbe vana la diabolica cospirazione. Protestatosi dallo Stefani, volersene tornare a Bergamo, rispondeva Landrieux, non convenirsi, bensì andare a Brescia. Toccatasi dal Veneziano la gratitudine della repubblica rispondeva il Francese, premio non desiderare per allora, doversi il suo nome tenere segreto, finchè l'esercito fosse ridotto sulle Alpi per restituirsi in Francia; se Venezia allora si ricordasse di Landrieux, ciò gli sarebbe a grado. Trovava modo Stefani di tornare a Bergamo; ebbe raccontato il fatto ad Ottolini. Scriveva il podestà prestamente al provveditore straordinario Battaglia. Ma i congiurati, forse per aver avuto sentore, o lingua degli avvisi dati da Landrieux, furono più presti a fare, che Ottolini e Battaglia ad impedire.

Era la mattina dei dodici marzo, quando un moto insolito si manifestava in Bergamo, i congiurati chiamavano il popolo a libertà; predicavano, ajutare i Francesi l'impresa; divisi in varie squadre giravano per la città; fermavansi tratto tratto ai capi delle strade, poi di nuovo marciavano; guardie Francesi raddoppiate alle porte, cannoni condotti dal castello in piazza, due rivolti al palazzo; interrogato il comandante Francese dal podestà, che cosa volesse significar questo, accusava pattuglie insolite di soldati Veneziani e della sbirraglia. Erano in Bergamo due compagnìe di cavallerìa Croata, due di fanti d'oltremare, tre d'Italiani, forse con tutto questo trenta sbirri; non montavano fra tutti a quattrocento: i Francesi quattro mila, se non mentivano le polizze, perchè per altrettanti forniva i viveri la provincia. Di quei pochi, col castello in mano, con tutte le artiglierie in suo potere temeva il comandante. Insomma nasceva il romore, atterriti gli amatori dello stato vecchio, imbaldanziti gli amatori del nuovo. Lefevre, comandante per Francia, fatti chiamare a se i deputati alle provvisioni, intimava loro, avessero a sottoscrivere il voto per la libertà, ed unione del Bergamasco alla repubblica Cispadana: se nol facessero, ne anderebbe la vita. In questo mezzo due uffiziali repubblicani, l'Hermite e Boussion, presiedevano ai voti per la libertà, ed unione alla Cispadana. Sottoscrivevano, alcuni per amore, molti per forza. Era un andare e venire, una confusione, un trambusto incredibile. Scendeva la notte intanto, e rendeva più terribile l'aspetto delle cose. In questo mentre si creava il municipio; toglievano i repubblicani lo stendardo Veneto, che ancora sventolava sulle mura del castello. Era ancor libero Ottolini, instava presso a Lefevre comandante, della santità dei neutri ammonendolo. Ma Lefevre, deposta in tutto la visiera, faceva udire questo suono, che il popolo di Bergamo era libero, che per questo egli aveva fatto torre lo stendardo Veneto, ostacolo alla libertà; che le intraprese lettere del podestà (quest'erano le lettere con le quali Ottolini mandava agl'inquisitori di stato la nota dei congiurati, e che erano state intercette ed aperte da Lefevre) gli servivano di regola; che però egli, Ottolini, avesse a sgombrar tosto da Bergamo; quando no, il manderebbe carcerato a Milano. Cacciare dalla propria sede sotto pena di esilio e di carcere un rappresentante pubblico di un governo, è oltraggio tale, che niun altro può esser maggiore, e solo avrebbe bastato, non solamente a giustificare, ma ancora a necessitare qualunque presa d'armi, ed anzi una formale dichiarazione di guerra da parte del senato Veneziano contro la Francia, se questa non satisfacesse, come effettivamente non satisfece. Mentre il comandante minacciava Ottolini, sopraggiungevano l'Hermite e Boussion, e con loro i conti Pesenti ed Alborghetti, in divisa e nappa Francese. Di bel nuovo intimavano ad Ottolini, partisse subito, o sarebbe mandato a Milano. Partiva il podestà alla volta di Brescia, lasciando Bergamo in poter dei novatori, i soldati Veneti, prima disarmati, poi mandati a Brescia.

Il nuovo magistrato municipale mandava fuori un manifesto per informare, come diceva, il popolo sovrano, che i municipali erano entrati in ufficio. Scriveva quindi il giorno medesimo in nome del popolo sovrano di Bergamo alla repubblica Cispadana, avere Bergamo conquistato la libertà, desiderare collegarla con quella della Cispadana; l'accettassero in amicizia, dessergli quella del popolo Cispadano. «Viviamo, continuavano, combattiamo, e moriamo, se fia d'uopo, per la causa medesima: al medesimo modo debbono vivere i popoli liberi: viviamo adunque uniti per sempre voi, Francesi, e noi».

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