Vittorio Bersezio - La plebe, parte I
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Così fece Maurilio, e il domestico s'affrettò su per lo scalone. Due minuti non erano ancor passati che ecco venir correndo un bel giovane in elegante ed inappuntabile acconciatura da ballo, il quale esclamò con accento veramente cordiale:
– Che? Sei tu che mi cerchi, Maurilio? Vieni, vieni e dimmi che cosa è capitato.
A questo intervento, la soglia del vestibolo, che fino allora gli era stata contesa dal domestico e dall' ordinanza rimasta lì pronta a pigliar pel braccio l'intruso e ricondurlo fuori, quando ne fosse il caso; quella preziosa soglia fu permessa a Maurilio e il piede di costui potè, benchè tutto sporco di fango, calpestare il ricco tappeto del vestibolo come facevano gli scarpini di vernicato del suo compagno.
Francesco Benda, come ho già detto, era un bel giovane, ma ciò che è meglio, simpatico per chiunque lo vedesse, e inoltre (il che è assai di più ancora) buono, generoso, amorevole, pieno di carità e d'affetto. Apparteneva alla ricca borghesia, ma non ne aveva gli stupidi orgogli, l'arida ignoranza e i gusti meschini. Suo padre, operoso industriale, aveva coll'intelligenza e col lavoro accresciuto un vistoso patrimonio già lasciatogli da' suoi parenti, e seguitava ad accrescerlo coll'esercizio di parecchie miniere di ferro che attivamente coltivava e con una grandiosa fabbrica d'ogni fatta utensili di questo metallo.
L'unico figliuolo maschio di questo fabbricante aveva fin da principio manifestato poca inclinazione per le cose dell'industria. L'orgoglio del padre suscitatosi alquanto coll'aumentar delle ricchezze, quello della madre maggiormente soddisfatto ed incitato insieme dalle belle sembianze e dalle simpatiche maniere del figliuolo, le tendenze di quest'esso, avevano congiurato per far decidere dalla famiglia che Francesco non continuerebbe nel mestiere del padre, ma farebbe il signore ; val quanto dire l'uomo ozioso, il consumatore improduttivo che la sciala sul capitale raccolto dal lavoro accumulato da' suoi antecessori. Siccome per la borghesia torinese, massime a quei tempi, la laurea d'avvocato era una mezza nobiltà che tirava su chi la possedesse dal ceto mercantile creduto da meno; padre e madre Benda decisero che il loro figliuolo vestirebbe la toga dottorale; e il buon Francesco accrebbe di uno il numero degli avvocati senza cause che pagano con cinque anni sciupati all'Università la sciocca superbia di portare quel titolo.
Ma il giovane Francesco ebbe due fortune: la prima un'indole eccellente, non iscompagnata da una buona intelligenza, e quindi una propensione per tutto ciò che è bello e sopratutto per le divine cose dell'arte, fra le parti della quale egli prescelse e coltivò non senza successo la più delicata di tutte, la musica; la seconda fortuna fu di abbattersi in una schiera di amici che erano d'animo eletto e di non volgare ingegno. Fra costoro contava Maurilio; e come questi due giovani, così divisi dalle condizioni sociali, si fossero incontrati, raccozzati ed amati, vi racconterò fra poco.
Al momento in cui, quella sera di festa, appena udito il nome dell'amico che cercava di lui, Francesco Benda s'affrettava a recargli innanzi la sua aggraziata persona, la faccia serena, la fronte leggiadra coronata di bei capelli castagni riccioluti, lo sguardo degli occhi azzurro, limpido come quello d'una ragazza innocente, egli contava intorno a venticinque anni. Era conosciuto ed ammesso in tutte le più eleganti società; se fosse stato un fatuo, avrebbe potuto contare molte di quelle che i Francesi chiamano buone fortune . Le signore più alla moda cantavano con espressione le sentimentali di lui romanze, e quando egli sedeva al pianoforte, anche le più schive e severe si accostavano a lui e non disdegnavano fissare i loro occhi lucenti sulla bella testa del giovane e si commovevano alle dolcissime melodie che egli sapeva suscitare dai tasti. Le adulazioni degli amici interessati che mangiavano le sue cene, fumavano i suoi sigari, cavalcavano i suoi cavalli, usavano sotto titolo d'imprestito da non restituirsi mai, della sua borsa, non lo guastavano, perchè egli alle adulazioni non credeva e le abborriva; e la compagnia di quei tali amici che ho detto più su, cui egli si procacciava il più spesso che gli fosse dato, creavagli intorno, direi quasi, un ambiente sano a premunirlo.
Egli adunque era corso sollecito alla chiamata di Maurilio; l'aveva intromesso nel vestibolo, e prendendo all'amico le mani grosse e volgari colle sue accuratamente inguantate di bianco, aveva soggiunto:
– Parla, parla. Spero che non sia accaduto nulla di disaggradevole nè a te, nè ai nostri amici; ma ad ogni modo, qualunque cosa sia, dimmela, e tutto ciò ch'io dovrò fare, sta certo che lo farò.
Maurilio teneva gli occhi bassi ed esitava a parlare. Una nuova menzogna, e detta a quel buono e leale amico, troppo ripugnava alla sua anima franca; e dire la verità si vergognava più che non si può esprimere.
Francesco interpretò quell'esitazione nel peggior senso.
– Dio! Esclamò egli tutto sgomentato. Tu mi spaventi. È dunque alcuna cosa di grave?
Abbassò la voce ed accostò ancora le labbra all'orecchio dell'amico.
– Forse, soggiunse con una voce che non era più che un soffio leggiero, forse siamo scoperti?..
Maurilio sollevò in volto a Benda il suo sguardo espressivo.
– No: rispose. Ciò che qui mi trasse, non è nulla che possa inquietare nessuno. Ebbi immenso bisogno di penetrar sin qui, ho immenso bisogno di fermarmici un istante… Ho pensato ricorrere alla protezione del tuo nome.
Benda stupito stava per fare alcuna interrogazione, quando un movimento generale interruppe il colloquio dei due amici.
Un domestico passò correndo e gettò queste parole: – È qui la Corte. Sotto l'atrio suonò con voce vibrata il cenno del guardiavoi dato dal comandante delle Guardie del Palazzo : le Guardie del Corpo nel vestibolo e su per lo scalone si misero nella postura del soldato in rango e portarono a bracc'-arm le loro lucenti carabine: la Commissione dei soci incaricata del ricevimento scese la branca ultima dalla scala e s'avviò verso l'atrio.
Prima di riunirsi a questa schiera, Francesco Benda disse affrettatamente a Maurilio:
– Mettiti lì, dietro quel vaso, ed aspettami. Appena accompagnata la Corte negli appartamenti, torno giù, e riparleremo.
Maurilio non desiderava di meglio: sparì dietro un grosso vaso d'oleandro, mentre preceduto dal susurro della folla curiosa dal di fuori, entrava sotto l'atrio il battistrada a cavallo, coperto il mantello rosso di neve.
– Presentat-arm! Comandò la medesima voce.
Si udì il rumore secco e vibrato del movimento dell'arma eseguito dalle guardie colla precisione di vecchi soldati, e sei carrozze della Corte, l'una dietro l'altra, entrarono in mezzo ad un profondo silenzio del popolo che si accalcava fuori del portone e che i Carabinieri e i Veterani tenevano indietro non sempre con buona grazia.
Quello non era ancora il tempo in cui ogni comparsa in pubblico del sovrano desse pretesto ad un'ovazione popolare.
Gli augusti personaggi scesero di carrozza e brevemente complimentati dall'apposita deputazione, si avviarono verso le scale. Veniva primo re Carlo Alberto, con alla destra la regina ed alla sinistra, d'un passo indietro, il presidente della Società che lo accompagnava; poscia il duca di Savoia Vittorio Emanuele colla duchessa, al cui lato dall'altra parte camminava il duca di Genova; dietro, dame ed ufficiali d'ordinanza ed aiutanti di campo e cortigiani.
Le brillanti uniformi degli uomini, i diamanti ed i vivaci colori delle acconciature femminili lucicchiavano alle mille fiamme di quella luminaria, come un'accolta di fuochi. Tutto quello che ha di più maestoso e di più splendido la società civile, radunato in quel gruppo di grandezze e di suntuosità, passava innanzi agli occhi abbagliati di Maurilio, di quel povero giovane senza nome e senza famiglia, nato e vissuto nella povertà e nel lezzo della più umile plebe, che veniva pur ora dagli sconci quartieri ove s'agita la più sprezzata ciurmaglia ed aveva a' suoi piedi appiccato il fango dei trivii più sozzi. Un mordente pensiero gli spuntò nel cervello, e un gran quesito, quello della sorte umana, lo morse improvviso nell'animo.
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