Vittorio Bersezio - La plebe, parte I
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– Quelli son tutto, ed io nulla!.. Perchè?
Sentì nel petto un'angoscia che gli parve la stretta d'un'invidia potente.
– Oh! se potessi aver mio uno di quei nomi, una di quelle grandezze!
Pensava a quella giovane beltà cinta di ricchezza e d'orgoglio che nella fila dei cocchi attendeva la sua volta per venire a montar quello scalone e introdursi in quell'Eden di gioie mondane a lui serrato dalla tirannia delle convenzioni sociali.
– E v'è un uomo al mondo, continuava egli nel suo pensiero, il quale con atto di sua volontà potrebbe farmi grande e potente; e quest'uomo è quello che ora mi passa dinanzi; è quello che chiamano col nome di re.
Colle mani Maurilio aprì un piccol varco tra le frondi della pianta dietro cui si riparava, e spinse alquanto innanzi la faccia per vedere il re ch'egli conosceva soltanto dai ritratti che abbondavano presso tutti i mercanti di stampe.
La figura di Carlo Alberto era tale, che, non fosse pure stata quella d'un re, avrebbe in ogni dove attirata l'attenzione e meritato dall'osservatore un posto singolare ed una preminenza sulle altre. Sul suo sembiante stava l'impronta della sua natura generosa, ma in alcuni lati incerta, sostenuta in parte da una fede potente, travagliata in altra da un dubbio crudele – dubbio degli uomini e di sè stesso. La vastità della fronte informava di quella dell'intelligenza; le rughe precoci delle tempia, la canizie anticipata delle chiome svelavano segreti, forse da nessuno mai compresi dolori; il pallore quasi cadaverico delle guancie emaciate, lo sguardo spento de' suoi occhi affondati stavan segno di profondi travagli, in notti vegliate ai tormentosi studi, in cui un pensiero ribelle affannava un'anima, forse non vigorosa abbastanza, un generoso concetto lottava contro una volontà non adeguata di forza, una seducente ambizione ed un coraggio individuale, accresciuto da una tradizione di razza, contrastavano colle esigenze d'un prudente riserbo, alcune volte timido per necessità fatale e dolorosa.
Su questi tratti del politico e del re, gettava un velo, che ne accresceva l'incertezza, una specie di misticismo ascetico; sopra le sembianze del cavaliere scorgevi una traccia del rinunciamento, del sacrificio passivo dell'anacoreta; avresti detto che quelle tormentose veglie, onde rimaneva affranta la combattuta carne, cominciate nel faticoso problema delle cose terrene, finivano in rapimenti estatici nell'incomprensibile delle cose divine. Al postutto una grandiosa figura, una delle più complesse e delle più degne di studio che abbia la storia moderna.
Maurilio sentì una strana attrazione verso quella imponente figura di sì misteriosa espressione. Non era lo splendore della potenza che lo colpisse, non era la corona regale ch'egli vedesse su quella pallida fronte; era come la malìa d'un ignoto, che pur si sente racchiudere la grandezza d'un pensiero fecondo, era la traccia del travaglio doloroso di un'anima superiore, travaglio che pareva sin d'allora il preavviso che quella fronte avrebbe portata una corona ancora più preziosa: la corona di spine del martirio.
Il giovane plebeo non potè tenersi dallo spingersi alquanto innanzi a mirare di meglio quell'alta, scialba, severa, solenne persona di re incanutito, brillante il petto di tutte le cavalleresche insegne, circondato di tutte le mostre della potenza. Carlo Alberto ebb'egli attirata la sua attenzione dal lieve rumore del fruscio delle foglie, fu egli avvertito da un influsso magnetico dello sguardo penetrante di Maurilio? Il fatto è che il sovrano volse il capo a quella parte, e visto, in mezzo ai fiori dell'oleandro, due occhi, ardenti come carboni accesi, fissi su di lui, diede in un sussulto lievissimo, e il suo occhio semispento si affissò a sua volta in quegli occhi e balenò d'un istantaneo bagliore in cui si sarebbe potuto dire ci fosse dubbio, sospetto, un'ombra di fugace apprensione tostamente repressa. Ma non una linea de' suoi tratti si mutò, non un muscolo della sua faccia menomamente si mosse. Lo sconosciuto non aveva chinato le sue pupille nell'incontrare lo sguardo di quelle del re; ma in quegli occhi profondi non c'era pure un accenno di ostilità, piuttosto vi era un desiderio, una specie di aspirazione, un voto, quasi una speranza 1 1 Introdurre la figura di re Carlo Alberto nelle scene del mio racconto, è ella una imperdonabile temerità? Spero di no. Nello svolgersi di questa storia, insieme colle varie classi sociali, ho pensato introdurre anche la monarchia in presenza del problema della plebe. E il monarcato non poteva meglio rappresentarsi che nella nobile, maestosa figura di Carlo Alberto. L'arguto lettore, a quest'ora, si sarà accorto che nei personaggi introdotti a sostenere una parte in questo dramma, si incarnano varii tipi, e in quello di Maurilio stanno raccolte ed espresse in gran parte le qualità, i bisogni, i sentimenti della plebe che conoscesse i suoi mali, e travedesse i rimedi di essi, ed avesse acquistato il sapere di formolarli ed esprimerli. Se questa plebe si troverà in contatto colla monarchia, non è ella la cosa la più naturale del mondo; e quando nessuna delle parti ne resti calunniata o le sue condizioni falsamente espresse, qual legge di convenienza o di verità potrà dirsi offesa?
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Carlo Alberto continuò il suo cammino, e l'occhio suo, senza pur muoversi, corse via dal viso squallido e tormentato del giovine plebeo all'imponente corporatura della Guardia del Corpo vicina, che presentava l'arma, immobile e dura come un pezzo di marmo.
Era l'epoca in cui credevasi Carlo Alberto aver detto, e certo avrebbe potuto dirlo con tutta verità, trovarsi egli fra il pugnale dei Carbonari ed il cioccolato dei Gesuiti. Damocle coronato, l'antico cospiratore del ventuno camminava sopra un terreno malfido, frammezzo a due abissi, senza una mano a cui sicuramente appoggiarsi, sotto le cortigianerie dei grandi e sotto il muto riserbo dei popoli sentendo romoreggiare cupamente odii infiniti, ed implacabili sospetti, ed infinite minaccie; camminava fra un sì ed un no che nel capo gli tenzonavano incessantemente, verso un'ignota meta, di cui non iscorgeva egli stesso la qualità e la sorte. Che meraviglia se alcuna volta esitasse nel passo? Che meraviglia se all'aspetto d'ogni cosa ignota, s'attendesse ad un avverso colpo del fato? Se al semplice fatto d'un luccicar di due occhi accesi tra i fiori di una festa, nascesse nel suo cervello l'idea d'un pericolo?
Il Re passò lentamente, e dietro di esso la frotta ordinata e smagliante della Corte. S'udì in alto, per la vastità degli appartamenti suonare la marcia reale e perdersi il plauso di battimani, con cui i beati del censo, invitati a quella festa, salutavano l'arrivo di quei sommi rappresentanti dell'autorità sociale. Le Guardie del Corpo si formarono in isquadra e salirono lo scalone dopo il corteggio reale; e le carrozze degli arrivanti ripresero il loro sfilare sotto l'atrio, interrotto dall'arrivo degli equipaggi di Corte.
Maurilio non abbandonò il suo ripostiglio. L'impressione prodotta in lui dalla vista del regio corteo era già scancellata pel ridestarsi più vivo del sentimento e del desiderio che lo avevano tratto colà. Allungato il collo di dietro la pianta che lo nascondeva, egli guardava ansiosamente le eleganti femminee forme che non cessavano dallo sfilargli dinanzi. La carrozza su cui egli aveva tutto concentrato il suo pensiero tardava a sopraggiungere. L'orchestra del ballo gettava giù per le ampie volte dello scalone le sue armonie febbrilmente concitate. Quella musica e gli acri profumi di quei fiori che lo circondavano, salivano al cervello del nostro povero giovane come il principio d'un'ebbrezza fatale, come lo sventurato solletico d'una tentazione indefinita.
Era sua intenzione di non abbandonare il suo ripostiglio, ma secondo la fatta promessa, Francesco Benda, tosto che il potè, venne affrettatamente a raggiungerlo.
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