Vittorio Bersezio - La plebe, parte III

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Fece una pausa ed era evidente, chi l'avesse visto, che la sua mente, così agitata da varie impressioni, ora s'affondava sempre più in una grave meditazione.

– L'Inghilterra, riprese egli a dir seco stesso, è quella che possiede l'aristocrazia più potente, più benemerita e fondata su più salda ed incrollabil base. Sul continente la monarchia, distruggendo il feudalismo colla forza, appoggiandosi sul popolo, ha fatto di noi poco più che cortigiani soltanto. Una Camera di Pari ci rialzerebbe i caratteri, l'autorità e le fronti.

Sorrise, poi tentennò il capo e fece un gesto colla mano, come per allontanare da sè la follia di quel pensiero.

– Eh via! soggiunse. Noi siamo oramai incastrati a questa monarchia tal quale essa è. Conviene vivere con essa della sua vita presente. Una modificazione nella medesima chi sa dire le conseguenze che può avere? Non sarebbe egli aprirvi dentro una breccia? E traverso questa, per quanto stretta, passerebbe senza fallo oggidì lo spirito sovvertitore moderno. Ma l'aristocrazia inglese ha un suo metodo per tenersi sempre in prima fila in quella vita di pubblicità e in quella lotta di intelligenze e d'ambizioni; ed è di studiar molto essa stessa, e poi di chiamare a sè, d'invitare, accogliere e far suoi tutti i più notevoli ingegni che dieno prova efficace di sè nelle classi inferiori. Così la si rifornisce, per così dire, di nuovo sangue, la si rinforza di nuovi campioni e li toglie a' suoi nemici che se ne potrebbero servire; acquista di quando in quando nelle nuove reclute lo zelo sempre più ardente di neofiti. Ciò dovremmo fare anche noi. Con un po' d'oro acquistare un ingegno; di questo non ne abbiamo troppa abbondanza per trascurare siffatto mercato…

Riprese in mano lo scartafaccio di Maurilio che aveva abbandonato sulla mensola del camino.

– Questo disgraziato che non ha nome, che non ha famiglia, che forse non ha pane, ha la ricchezza dell'ingegno. Perchè non diverrebbe un soldato della nostra falange?

Si diede a continuare la lettura del manoscritto.

«L'individuo gli è verso la famiglia che ha il diritto naturale di ricevere l'istruzione: lo Stato che ha interesse i suoi componenti sieno istrutti, gli è alla famiglia che ha il diritto sociale d'imporre la educazione dei figli.

«Ma se la famiglia non può? Perchè si raccolsero le famiglie in Comune se non perchè questo secondo ente collettivo sottentrasse colla sua forza maggiore là dove le forze della famiglia non potevano provare? L'educazione dei poveri è obbligo del Comune.

«Se questo manchi al debito suo, lo Stato, associazione superiore, dovrebbe obbligarlo a compierlo; e se il Governo, troppo lontano e non abbastanza in condizione da vedere e giudicare le circostanze locali, affidasse questo suo diritto e il sindacato che ne fa parte alla Provincia, tanto meglio e tanto più efficace il provvedimento.

«Il Comune adunque dovrebbe procurare che fosse aperta nel suo seno quella scuola che dà gli elementi necessarii ed indispensabili dell'istruzione alla fanciullezza. A quell'età l'istruzione è unica e serve per tutti, a qualunque classe si appartenga, qualunque carriera si sia per intraprendere di poi. Sarebbe assai venturoso che i figliuoli dei ricchi si frammischiassero fin d'allora ai figliuoli dei poveri, e imparassero l'eguaglianza degli uomini innanzi al diritto, il rispetto alla dignità personale in ogni creatura umana. Ma se ciò sarebbe pur bene, non è tuttavia da imporsi. Quella libertà ch'io propugno, vorrei rispettata anche in codesto. Il Comune apre la sua scuola a tutti; ma se alcuno ha i mezzi di istruire i suoi figli all'infuori di questa scuola, sì lo faccia e resti libero dall'obbligo di mandameli, quando provi che questa istruzione egli loro fornisce realmente ed efficacemente.

«Pei trasgressori note di biasimo pubbliche e multe.

«Per mantenere la scuola il Comune tasserebbe i contribuenti d'un balzello apposito. Ma dunque i ricchi pagherebbero la scuola pei poveri? Appunto. Ma questo è socialismo! E lo sia; ma è socialismo che dirò onesto e ragionevole. È socialismo che già è in vigore per molti altri bisogni comuni dell'associazione. Chi paga le strade? chi l'illuminazione della città? chi la forza pubblica che mantiene la sicurezza, ecc., ecc.? I contribuenti: quelli che possedono. Ed il proletario non gode pur esso di questi vantaggi della vita sociale? Se voi pagate per illuminare le strade di notte affine di non essere assassinati, pagate senza rimpianto per illuminare le menti del popolo ottenebrate dall'ignoranza e ci guadagnerete eziandio nella sicurezza, e risparmierete forse e senza forse nelle spese degli agenti dalla polizia, nelle spese delle carceri. Anche codeste ultime spese le pagate voi, ricchi, pei poveri: e sarebbe meglio non le aveste da pagare…

«Ma in ciò altresì vorrei lasciato il primo posto alla libertà. Il Comune dovrebbe dire ai suoi cittadini: – Voi che possedete, volete liberamente consociarvi per mantenere le scuole onde abbisogniamo? Alla vostra libera associazione per quest'uopo, la quale appunto sarà tanto più zelante, io cedo volentieri il luogo, pronto a riprenderlo se voi fallite. Non volete? Allora sono costretto ad usare delle mie attribuzioni di ente collettivo stabilito per ottenere il meglio possibile i fini proposti…»

Più in là il marchese incontrava quest'altro passo notato dal Commissario:

«La società famigliare è imposta all'uomo dalla natura, la società civile e politica è ancor essa il risultato necessario delle sue condizioni fisiche, fisiologiche, intellettive e morali. L'uomo non vi si può ribellare: il diritto comune è lì per ischiacciarlo s'e' lo tenta: il suo consentimento ai legami sociali se è giusto bensì, se risponde ai suoi bisogni ed interessi, è pur sempre tuttavia un consentimento forzato.

«Ciò vuol dire che questa società, che il Governo, in cui la si concentra e con cui agisce, deve strettamente rinserrare la sua azione entro i limiti delle cose che gli spettano realmente, per cui ha la sua ragione d'esistere. Uscendo di là esso, il Governo, abusa di quel costretto assenso, abusa della tacita costretta delegazione, offende la libertà: ogni passo fuori della cerchia delle sue attribuzioni è un passo nella tirannia.

«Ma quanti nelle condizioni presenti dello stato sociale si trovano a disagio! Le leggi che guarentiscono i gaudenti sono in pari tempo ceppi a chi soffre e vorrebbe mutar la sua sorte. Devonsi quelle leggi abolire? ma allora abbiamo l'anarchia. Devonsi comprimere colla forza soltanto i disagiati per farli stare nel loro disagio? ma allora abbiamo la guerra civile in permanenza.

«Il rimedio possibile – un rimedio, relativo e lento e di progressivo sviluppo, imperocchè in ogni cosa della creazione tanto riguardo alla materia sì organica che inorganica, quanto riguardo al mondo morale e intellettivo, nulla è brusco, improvviso ed assoluto – l'unico rimedio possibile, a mio avviso, è una che chiamerei forza del mondo umano, di cui la natura medesima ci diede l'idea, imponendoci la sociabilità, forza la quale non è nuova, nè nuovamente conosciuta, imperocchè ne troviamo imperfette applicazioni anco nel Medio Evo, ma che pur tuttavia ora soltanto pare aver trovate le condizioni acconcie nell'umanità per isvilupparsi e cominciar a mostrare ancora in lontano adombramento che cosa possa ottenere, sin dove arrivare: e questa è L'ASSOCIAZIONE.

«L'uomo, arruolato fin dalla nascita nel corpo sociale, non ha tuttavia con ciò esaurito quell'attitudine di sociabilità che porta seco, specialissimo e nobilissimo carattere dell'esser suo. La società politica e civile non risponde che ad una parte dei suoi bisogni e delle sue facoltà: in tutto il resto devo lasciarlo libero, mentre nello stesso tempo, col fatto suo gl'insegna la verità aritmetica che tante debolezze consociate formano una forza potentissima.

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