Vittorio Bersezio - La plebe, parte III

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«La libertà individuale consiste in ciò che l'uomo possa fare tutto ciò che spetta alla sua azione, tutto ciò che gli piace ed ommettere eziandio a suo talento tutto ciò che non ha voglia di fare, quando col suo fatto colla sua ommissione non urti nella libertà degli altri, non leda i diritti altrui. Se ad un uomo piace l'essere ignorante, che diritto ha la società di dirgli: rompiti la testa a studiare, perchè io voglio che tu sia istrutto? Potrebbe dirsi che la società da un uomo istrutto ricava utile assai più che da un ignorante, ed ha perciò diritto di pretendere che quel suo membro le dia tutto ciò che può darle di sua capacità; ma questo a mio vedere è un sofisma. L'uomo dev'essere accettato dalla società quale si trova: ricco o povero di talenti, ricco povero di cognizioni, ella non può pretender altro se non che non violi i diritti altrui, non minacci la sicurezza comune. Con diverso criterio bisognerebbe ammettere che la società avesse diritto di scrutare se l'individuo può dare maggior lavoro di quello che dia effettivamente, maggior virtù, maggior senno e che so io, ed obbligarlo a dare questo tanto di più: il che sarebbe non che tirannico, assurdo.

«Ma quand'è che l'individuo ha da godere di questa sua libertà che è per così dire un santuario in cui nessuno deve osarlo turbare? Quando esso n'è fatto capace: quando la sua personalità è arrivata a quella maturanza per cui è risponsabile de' suoi atti, quando insomma è veramente uomo. Il fanciullo non ha la pienezza di questa libertà perchè non ha la possibilità di usarne: gli manca la responsabilità perchè gli manca la ragione; l'infanzia fisicamente e moralmente ha bisogno di sostegno; il diritto ch'essa ha, quasi per inversione, è appunto quello che altri abbracci e faccia come appendice della sua la esistenza di essa e provveda a tutti i suoi bisogni.

«Ora qui si trovano in accordo due principalissimi elementi: l'interesse che ha la comune associazione che le si crescano generazioni meglio capaci di conferire al bene comune mediante l'istruzione, ed il diritto che ha ciascun individuo, quando non può ancora da sè provvedere alle cose sue, che siccome si procura la soddisfazione de' suoi bisogni fisici, gli si fornisca eziandio quel capitale di cognizioni onde avranno ad avere soddisfacimento di poi i suoi bisogni intellettivi e morali. L'obbligo adunque dell'istruzione non s'impone all'individuo su se medesimo, quando capace di giudicare e volere, ma s'impone ai padri che debbono ancora volere e giudicare pei figli.

«La libertà dei padri rimane ella lesa? No. Hanno essi diritto i padri di decidere e volere che i loro figliuoli rimangano nel lezzo dell'ignoranza? Questa loro libertà eccede i limiti in cui si deve muovere, perchè offende il diritto ingenito che ha il figliuolo all'alimentazione dello spirito, pari a quello che reca seco nascendo all'alimentazione del corpo. Se un padre rifiuta di provvedere il cibo a' suoi figli, lo si punisce – ed a ragione – ; se non sa non può procurarglielo sottentra l'azione sociale a sostituirlo. Così dev'essere del cibo dello spirito.

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«La plebe può quasi ancora paragonarsi alla fanciullezza 2 2 Vincenzo Gioberti nell'aureo suo libro del Rinnovamento fa precisamente questo paragone quando dice che l'emancipazione della plebe e della donna è la missione precipua del presente secolo. . Come tale non avrebbe ella il diritto di essere illuminata, anche con qualche costrizione? Se si mettessero obbligatorie per l'operaio le scuole serali degli adulti, per esempio?.. Ma no; beneficia invitis non conferuntur , dissero i Romani; si lasci pure all'operaio già cresciuto la libertà di andare piuttosto all'osteria la sera che non alla scuola; ma questa scuola frattanto ci sia, perchè, dove lo voglia, egli vi si possa recare.

«Scuole obbligatorie per tutti indistintamente i fanciulli; scuole facoltative per gli operai adulti. Va benissimo: ma chi le pagherà tutte codeste scuole?

················

«Gli enti naturali che hanno la loro ragione di esistere superiormente alla legge sociale sono due: l'individuo e la famiglia. È legge di natura che l'individuo per isvilupparsi abbia bisogno della famiglia: questa è la ganga da cui si sprigionerà il metallo della persona individuale. Una famiglia rudimentale hanno anche i bruti: colla comparsa della ragione nell'umanità essa doveva progredire in nuova e più perfetta costituzione colla sanzione di più spiccati e maggiori doveri e diritti nei due termini che la compongono: la paternità e la figliuolanza.

«Ma quella prima agglomerazione d'individualità che è la famiglia, è ancora molto debole in faccia alla natura che impone ad ogni suo organismo vivente la lotta per l'esistenza. I comuni pericoli costringono parecchie famiglie ad unirsi in vincolo di comune difesa: d'altronde la famiglia è una sorgente feconda di altre famiglie, dal tronco si slanciano varii e molteplici rami e tutti rimangono uniti da una comunanza di bisogni, d'interessi e d'affetti. È la prima associazione che non impone più la natura medesima direttamente e inevitabilmente. Intravviene un fatto sociale. L'uomo ha dedotto delle conseguenze dalle premesse delle sue condizioni, dalla sociabilità messa in lui virtualmente, da quello che ha imparato dall'esperienza. È fatto un passo immenso nella civiltà: è creato il Comune, la vera unità dell'associazione politica, la base d'ogni esistenza collettiva di popolo.

«Più tardi la progrediente vita sociale creerà dei bisogni a cui provvedere, dei pericoli a cui riparare, non basterà più da solo il Comune. Si sente da essi l'utilità di consociarsi in parecchi affine di accrescere le loro forze, i loro mezzi d'azione, la loro difesa. È nato lo Stato, o per dir meglio il concetto del medesimo si è staccato da quello del Comune con cui prima si confondeva, e s'è visto in esso qualche cosa di più comprensivo, una somma di rapporti di più lata e diversa natura.

«Finchè lo Stato rimase piccolo bastò che trammezzasse fra lui e la famiglia il Comune; ma il movimento del progresso politico si è finora disegnato di guisa da volere ed effettuare via via sempre più grandi agglomerazioni di popoli, prima empiricamente, senza regola direttiva, per la violenza della spada, per l'ambizione d'un despota o d'un popolo conquistatore; da ultimo, dopo la rivoluzione francese, dietro una specie di norma nelle condizioni geografiche ed etnografiche, con la legge d'un nuovo diritto, quello delle nazionalità; alla costituzione ed al compimento delle quali è chiaro per me che l'umanità cammina senza possibil riparo nel presente secolo, nella continuante evoluzione, nello sviluppo dei germi posti dal gran cataclisma europeo di cui fu stromento il più efficace la Francia.

«Ma fra lo Stato cresciuto a queste proporzioni e tendente a tutto accentrare ed assorbire, ed il Comune che vide minacciata ed ebbe anco intaccata la sua vita autonoma, fu bisogno allora che si stabilisse qualche cosa di mediano che provvedesse a certi bisogni locali e partecipati a più Comuni, ed a cui lo Stato, tratta in altro campo più vasto la sua azione, mal poteva e voleva e non doveva por mano. E fu costituita la Provincia.

«Or dunque noi abbiamo a costituire l'organismo sociale parecchi elementi, parecchi esseri di cui alcuni hanno vita direttamente dalla natura medesima, gli altri mediatamente per convenzione degli uomini resa necessaria dalle condizioni immutabili delle cose: l'individuo, la famiglia, il Comune, la Provincia e lo Stato.

«Se ciascuno dei membri di questo gran corpo, se ciascuna delle ruote di questa immensa macchina sta a suo posto ed esercita la sua funzione, le cose cammineranno a seconda come in un organismo vivente dove sia piena salute; ma se l'uno di quegli organi impaccia od usurpa l'azione dell'altro, se uno pretende avocare a sè ed esercitare le attribuzioni altrui, allora abbiamo il disagio, allora il corpo sociale è ammalato, allora v'è la prepotenza di questi, la schiavitù di quelli.

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